Immaginate di mettere insieme Quentin Tarantino e Agatha Christie, oppure, più semplicemente, di enfatizzare nel primo alcuni degli espedienti narrativi utilizzati dalla scrittrice nei suoi romanzi. Sappiamo bene che trovare i referenti del lavoro altrui non è sempre conveniente e che certi accostamenti aprono il fianco a critiche anche negative nei confronti di chi li avanza. Alcune volte però tali paragoni per quanto azzardati consentono di far capire meglio di altri il succo della faccenda. Nel caso di Free Fire ad avvalorare l’ipotesi iniziale è innanzitutto la particolarità della trama. Per raccontare di un traffico d’armi tra due gruppi di persone e della contrattazione destinata a trasformarsi nella pioggia di fuoco a cui allude il titolo, Ben Wheatley (Killer in viaggio, 2012) decide di collocare la lotta all’interno di un magazzino abbandonato in cui le bande si confrontano in una sfida all’ultimo colpo. Ciò che abitualmente costituirebbe un semplice spunto diventa in Free Fire l’essenza stessa del film, poiché il regista non prevede altri sviluppi che non siano quelli interni al conflitto a fuoco che deve decidere chi tra i molti riuscirà a mettere le mani su una valigetta piena di soldi.
E qui entrano in campo le similitudini con il primo lungometraggio di Tarantino, poiché Wheatley non si limita a circoscrivere le coordinate spazio temporali del racconto, mettendo insieme in un arco di tempo limitato un’umanità che – fatte salve le debite differenze – si avvicina per attitudini caratteriali e propensione delinquenziale ai personaggi di quel film. Si pensi ai primi venti minuti, quelli che fanno da premessa allo scatenarsi dell’inferno, durante i quali l’apertura delle ostilità è procrastinata da un lungo scambio di battute (come accadeva nel prologo dell’opera presa a modello) in cui il primato della parola sull’operato dei protagonisti è espresso dalla capacità dei dialoghi di stabilire il ritmo dell’azione, definendo il registro surreale e insieme tragico del film. E che dire, per esempio, dei tempi che scandiscono l’andamento della carneficina, portata avanti da Wheatley con gusto parossistico e dilatazioni temporali simili a quelle dell’esordio tarantiniano?
Wheatley, dalla sua, può contare su star del cinema mainstream come Brie Larson, Armie Hammer e Cillian Murphy, ingaggiate per destabilizzarne l’immaginario con situazioni poco consone al loro status. Per poterlo fare davvero gli servirebbe una sceneggiatura in grado di graffiare lo schermo o almeno di un’inventiva capace di bilanciare la ripetitività dello schema narrativo. Al contrario, la cosa più interessante di Free Fire consiste nel tentare di indovinare come finirà, pronosticando quale, tra i personaggi, riuscirà a farla franca. D’altronde i continui cambi di schieramento e l’ipotesi di un complotto pianificato a priori per manipolare il corso degli eventi dimostrano come il film non sia estraneo alla lezione della Christie e di romanzi quali Dieci piccoli indiani e, perché no, di Assassinio sull’Orient-Express. Ininfluente la decisione di ambientare la storia negli anni ’70.