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FuoriNorma: Ofelia non annega di Francesca Fini, suggestivo esempio di cinema neosperimentale italiano, porta la Performance Art sul grande schermo

Il film ispirato all’icona femminile di Amleto procede senza narrazione, attivando simboli per poi svilupparli e risolverli, tramite ingegnose performance montate insieme a preziosi scampoli di pellicola trovati nell’archivio dell’Istituto Luce. Con un filo rosso a collegare il tutto, gomitolo di lana scarlatta che diventa nastro d’inchiostro intriso di sangue, filo per chiudersi in una gabbia ideale o corda per costruire reti da pesca.

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Nell’aridità del conflitto uomo-donna l’arte può seminare germogli capaci di far fiorire bellezza e risvegliare le coscienze. E’ il caso dell’arguto ed ironico spettacolo teatrale Femminile Singolare: quello che le donne dicono in procinto di tornare in scena completamente rinnovato nei testi e con le interpretazioni di Francesca Targa, Michela Aloisi, Lucia Ciardo e Gloria Giovannelli, ed è il caso di Ofelia non annega che qui ci accingiamo a recensire dopo la suggestiva proiezione al Teatro dei Dioscuri, nell’ambito della rassegna FuoriNorma dedicata al cinema italiano neosperimentale. La regista e video-performer Francesca Fini ha accolto ogni spettatore con una fetta di torta “autoritratto” in zucchero e pan di spagna che riproduce fedelmente il calco del suo volto, per offrire simbolicamente la propria energia in pasto al pubblico. L’esperienza metaforica del mangiare ritorna più volte anche in Ofelia non annega, dalle due giovani occidentali che si nutrono avidamente di ciò che a prima vista costituiva oggetto di stupore/timore alla disperata voluttà della donna che sorbisce ghiaccioli di vari colori nonostante abbia la bocca serrata da un integerrimo burka. “Una performance consiste nel compiere un gesto, singolo o reiterato, simbolicamente significativo e risulta più efficace se durante l’azione incontra un attrito o un impedimento, – spiega Francesca Fini – io sto cercando di coniugare la Performance Art con il Cinema e non è facile perchè devo riuscire a riprodurre lo sguardo con cui lo spettatore osserva una performance dal vivo. Di solito lavoro con una telecamera fissa frontale e poi punto tante altre telecamere per zoomare ciò che ritengo più importante in quella determinata azione. Non faccio prove e la ripresa è unica: buona la prima“.

Ofelia non annega procede senza narrazione, attivando simboli per poi svilupparli e risolverli, tramite ingegnose performance montate insieme a preziosi scampoli di pellicola trovati nell’archivio dell’Istituto Luce. “Ho immaginato che la giovane Ofelia shakespeariana superasse gli anni adolescenziali e, attraverso le esperienze della vita e l’inevitabile sofferenza, crescesse e potesse vedere il mondo con occhi diversi – ha detto Francesca Fini. – Nel film non c’è una sola Ofelia, bensì le tante donne che lei avrebbe potuto essere, anche donne con età e colore della pelle diversi”. All’inizio del lungometraggio una fanciulla apre tutti gli scrigni che la vita le offre, trovando le trame di cui sarà intessuta l’intera sua esistenza. L’inquadratura è nitida e ricercata, i colori dominanti sono il bianco-candore, il rosso-passione/dolore e il nero-pericolo. Subito dopo la scena si sposta nella campagna romana del mediometraggio in bianco e nero Personaggi di un sogno (1952) di Aldo Rubens, conservato dall’Istituto Luce, dove troviamo l’attrice Mariella Lotti imbattersi misteriosamente in un antico libro intitolato Hamlet.

C’è un filo rosso, forse lo stesso rinvenuto dalla fanciulla in uno degli scrigni, che collega fra loro le performance interpretate da Inanna Trillis, Daniela Cavallini, Alessandro Parise, Alessia Latorre, Marzia De Maria, Marco Fioramanti, Daniele Sirotti, Giulio Bianchini, Sylvia Di Ianni, Letizia Lucchini, Simona Sorbello e dalla stessa Francesca Fini. Un gomitolo di lana rossa che diventa via via corda per costruire una rete da pesca, filo per chiudersi in una gabbia ideale oppure nastro d’inchiostro intriso di sangue per la macchina da scrivere, allorchè interviene il grottesco cinegiornale in bianco e nero del 1951 in cui un cronista, con parole dettate dal più bieco maschilismo, infierisce sulle settantasette dattilografe travolte a Roma dal tragico crollo della scala nel palazzo in cui cercavano lavoro: “Un posto di dattilografa da chissà quando aspettato è promesso per l’indomani, forse nemmeno una lettera del fidanzato le avrebbe trovate così sollecite all’appuntamento (…) Forse ciascuna pensava al paio di calze o alla borsetta che si sarebbe comprata col primo stipendio. E invece hanno lasciato qui la loro vecchia borsetta (…)”. Nel film di Francesca Fini il conflitto di genere è reso esplicito (memorabile la performance in cui un uomo e una donna, vestiti di bianco e immersi in uno spazio bianco, si ridefiniscono vicendevolmente a colpi di vernice colorata), ma lo scopo ultimo è superarlo: nella visione poetica dell’artista, piano piano, sperimentando, Ofelia prende dimestichezza con l’acqua e invece di annegare impara a fluire in essa, consapevolmente, aprendo nuovi occhi alla vita, in una natura finalmente benigna.

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