Probabilmente l’opera più preziosa vista al 35esimo Torino Film Festival, Un beau soleil interieur, ultima fatica di Claire Denis, già proposto come film d’apertura alla Quenzaine des Realisateurs a Cannes e ripresentato a illuminare gli ultimi grigi giorni della manifestazione piemontese nella sezione Festa Mobile.
Triste, malinconico e ironico allo stesso tempo, questo delizioso esempio del più elegante cinema francese contemporaneo, mette in scena, ispirandosi vagamente a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, la solitudine di una donna cui è andata male, che non è riuscita ad amare sentendosi amata, a vivere e a godersi quella condizione di vita, quel qualcosa, che detto così, sembra fin troppo banale ma che quando si passa una vita intera senza averlo mai vissuto, lascia una voragine interiore che inghiotte qualsiasi possibilità di felicità e benessere.
Isabelle si ritrova a non riuscire a portare avanti una relazione, non si sente mai voluta, vittima di uomini che non si mettono in gioco o della sua stessa insicurezza e insoddisfazione, che la portano a intraprendere legami con le persone sbagliate o a gestire male quei pochi che potrebbero rivelarsi soddisfacenti, muovendosi ed esprimendosi con tempi e modi che li soffocano prima ancora di dar loro il tempo di dispiegarsi.
Ogni spontaneità viene svilita da ragionamenti e parole, che intorpidiscono qualsiasi naturalezza rendendola asettica e vana. Tutti i personaggi sono vittime della propria incapacità di comunicare i loro slanci senza impoverirli o appesantirli con il prezioso ma troppo spesso asfittico e ingombrante strumento verbale.
Vi è un dialogo che esplicita questo concetto in cui incapaci entrambi di uscire da un impasse in cui nessuno dei due è in grado di far confluire naturalmente l’attrazione reciproca in un liberatorio e gratificante lasciarsi andare ai sensi, quando finalmente accade, lei dice “che bello, quando se ne esce!” per poi rifinirci qualche mezz’ora dopo.
In qualche modo affine, anche se per contrasto, al bellissimo Vendredi soir, lavoro precedente della Denis, nel quale accade tutto ciò che in questo film sembra inarrivabile, inaccessibile.
Sembra che qualsiasi cosa faccia, di fronte a qualsiasi uomo si trovi, Isabelle non sia mai in grado di costruire una reciprocità sentita, vitale, vera, una condivisione reale e appagante, che possa godersi per più di una notte(la maggior parte delle volte, nemmeno), senza che questa venga frenata o sminuita, trasformata in qualcosa di sterile che inevitabilmente si traduce per lei in rifiuto e fallimento personale. E nonostante apparentemente sembrino due condizioni opposte quelle che i due film descrivono, l’abile regista francese riesce a creare la stessa atmosfera di urgenza sia affettiva che fisica, oltre che con i corpi, con le luci, i colori, attraverso il vagare di questa donna, sia esso nelle strade di una Parigi meravigliosa, che venga ripresa nell’inquadratura di una via anonima vista da un taxi di notte o in quella della Torre Eiffel completamente illuminata, sia esso in un locale, in una stanza o in un letto.
Tutto appare comunque estremamente vitale, pregno di un’essenza che in Vendredi soir è riscaldata dall’essere soddisfatta e vissuta, qui è forte altrettanto ma del suo inappagamento, dell’assenza che la permea.
Una storia comune a molte donne quella di Isabelle, non a caso scritta da due di loro, la sceneggiatura è realizzata a due mani dalla stessa Claire Denis e da Christine Angot, che si separano dall’ispirazione a Barthes dalla quale erano partite per inserire entrambe degli elementi autobiografici, ottenendo un risultato assolutamente efficace e veritiero, complice l’ottima interpretazione di una altra gran donna, una straordinaria Juliette Binoche, particolarmente in parte oltre che animata dalla sua abituale potente presenza scenica.
Perfetti l’equilibrio e l’armonia tra musica e immagini e altrettanto azzeccata la scelta dei costumi, che fanno apparire Isabelle non particolarmente curata e stanca ma comunque bellissima, un look dal quale emergono tanto la disillusione e la stanchezza, quanto la speranza.
Le sue lacrime, ogni volta che le vediamo, illuminano un viso che per quanto provato e triste, è ancora vitale e anche se in alcuni momenti cade nello sconforto dicendosi che per lei non c’è più nulla, che vede la vita amorosa ormai alle spalle, impossibile da realizzare, in realtà non ha ancora rinunciato, non ha mai smesso di sperare.
Ed è un’energia potente, che commuove e nel contempo fa sorridere quella che trasmette con questo vissuto.
“Pourquoi, ça pourrait être pas differente pour une fois, pourquoi?Je comprends pas…”
È molto bello come, nonostante Isabelle sia una madre, una ex moglie, un’amante, una pittrice, tutto il film sia abilmente focalizzato sul suo essere donna, al di là di ruoli e definizioni, dalle riprese su di lei e dai primi piani ai dialoghi, al suo modo di muoversi e di agire. Potrebbe anche non aver divorziato, non avere un figlio o non dipingere, che ciò che ci arriva di lei, la sua luce, la sua malinconia, non cambierebbero, ci arrivano da Isabelle in quanto Isabelle, con desideri, disillusioni, speranze, capricci, indipendentemente dal ruolo che sta giocando.
Quel beau soleil intérieur che dà il titolo al film, che è l’unica cosa che ha, l’unica su cui potrà fare sempre affidamento, così come le viene ricordato sarcasticamente nel bellissimo finale, nel quale un quantomai opportuno Gerard Depardieu in veste di santone, la ubriaca delle solite e insufficienti parole con le quali fotografa una realtà senza alcuna certezza, tutta ancora da scoprire, un futuro che ovviamente non assicura nulla di ciò che lei tanto vorrebbe e lascia emergere tutta la desolazione di quel beau soleil, che stremato per quanto bello, non può far altro che sorridere malinconicamente mentre lo ascolta per non piangere.