Con Wind River lo sceneggiatore Taylor Sheridan, per la prima volta anche regista, porta a termine la sua “trilogia sulla nuova Frontiera” americana iniziata con la scrittura di Sicario di Denis Villeneuve e continuata con Hell or High Water di David Mackenzie.
Dopo la narrazione della lotta al narcotraffico sulla frontiera tra Messico e Usa e gli intrighi sulla pelle della povera gente nel Texas, Sheridan parla della vita nella riserva indiana di Wind River sulle montagne innevate del Wyoming.
Cory Lambert (Jeremy Renner) è un cacciatore al servizio degli abitanti che uccide i predatori (lupi e leoni) che attaccano le greggi del bestiame. In uno delle sue cacce scopre il corpo di una ragazza indiana, figlia di un amico, morta dopo essere fuggita per chilometri nel freddo e nella neve dai suoi presunti assalitori. Chiesto l’intervento dell’Fbi dalla polizia della riserva, arriva la giovane agente Jane Banner (Elisabeth Olsen), determinata a risolvere il caso, ma cosciente di muoversi in un territorio a lei sconosciuto si fa aiutare da Lambert.
Ci sono diversi temi che Wind River affronta per sineddoche.
Uno evidente è il rapporto duplice tra Lambert e la Banner che, oltre a mettere a fianco un uomo e una donna, evidenzia il confronto tra vita di montagna e quella della città, in particolare nelle sequenze dell’arrivo dell’agente con abiti completamente inadatti all’ambiente. In mezzo a una tormenta di neve, in cui l’agente Banner non riesce nemmeno a vedere la casa del capo della polizia locale, Lambert è si trasforma subito in “guida” della giovane, visto che la raggiunge e la porta a destinazione, rendendo evidente il suo ruolo nella vicenda per la giovane agente federale.
Un secondo tema è quello della vita dei giovani nativi americani alle prese con i riti di passaggio e gli scontri con le figure matriarcali e patriarcali, con un passato che va scomparendo e una presenza di uno spazio geografico ancora selvaggiamente immutato. Le montagne sono intatte, immerse nel freddo che può uccidere, congelando letteralmente i polmoni, e coperte da un tappeto di neve che immobilizza il tempo. La ricerca di libertà li porta verso la droga, l’alcolismo e le donne a cercare una via di uscita da una vita che può concedere poco. Inoltre, ancora una volta, la donna è oggetto di violenza maschile, ma le native americane sono viste ancora di più come esseri inferiori da una certa cultura sessista, in cui persino la loro scomparsa diventa irrilevante per la società dei bianchi.
Uno secondario, ma politicamente importante che viene messo in scena in Wind River, è lo sfruttamento delle risorse naturali, in questo caso del petrolio, e proprio un gruppo di guardie private che controllano il giacimento di una multinazionale sarà l’artefice del dramma che colpirà i protagonisti.
Possiamo, infine, citare la capacità dei personaggi di affrontare il dolore per la perdita personale e storica: da un lato, la morte della ragazza fa rivivere in Lambert quella della figlia adolescente, scomparsa in circostanze simili; dall’altro, l’amico indiano oltre al lutto arriva anche al lamento per non avere più un passato. Una delle più belle sequenze di Wind River è proprio quando Lambert si siede accanto all’amico nel giardino di casa, per comunicargli che è riuscito a vendicare la morte della figlia. L’indiano stringe una pistola e ha il volto dipinto. Quando Lambert gli chiede come si sia conciato, l’indiano risponde che è la sua maschera di morte, ma che ha dovuto inventarla perché non c’era più nessuno del suo popolo che poteva insegnargliela.
La somma delle parti potenziano i singoli temi in Wind River che, presi singolarmente, possono apparire superficiali e appena abbozzati. Sheridan, però, riesce a incastrarli uno con l’altro con una certa eleganza. Amalgama poi il tutto con il tema-cornice della caccia all’assassino che diviene il motore di spinta narrativo, a dire il vero a tappe forzate come in un percorso già delineato, ma comunque con una certa efficacia e il giusto climax emotivo.
Del resto, una delle prime sequenze già preannunciano quella del prefinale dello scontro a fuoco tra le forze di polizia e gli assassini: Lambert, mimetizzato nella neve, uccide due lupi di un branco che sta per attaccare un gregge pacifico di pecore. Il cacciatore-difensore che controlla il territorio, eroe solitario, è una figura del cinema western che Sheridan riprende e lo porta ai nostri giorni.
La prima prova di regia di Taylor Sheridan è poi stilisticamente apprezzabile (ha vinto per questo il premio nella sezione Un Certain Règard all’ultimo Festival di Cannes), riuscendo con l’alternanza di campi lunghi, che inquadrano un paesaggio in cui il vuoto si fa pieno, con i primi piani dei personaggi rende la visione ariosa e fornisce allo spettatore un respiro di profondità e solitudine ai protagonisti. I personaggi si confondono/confrontano con lo spazio naturale in un rapporto di timore e rispetto, rendendolo un altro vero protagonista della pellicola.
E se Elisabeth Olsen recita in modo soddisfacente, la prova attoriale di Jeremy Renner rende il personaggio di Lambert un’icona a tutto tondo, con un volto rugoso e uno sguardo profondo e triste come le montagne e le vallate di Wind River, trasformando il protagonista in un’appendice organica del mondo in cui si muove.