In un festival nel complesso sottotono, così come del resto un po’ tutte le manifestazioni cinematografiche di questo 2017 che non ha offerto poi tante opere memorabili, nella sezione Onde si è distinto, ma non troppo, Verão Danado, debutto nel lungometraggio del giovanissimo regista portoghese Pedro Cabeleira, già presentato nella sezione Cineasti del presente a Locarno, che mette in scena, prendendo da esempio la vita universitaria di Lisbona, ma che potrebbe rispecchiare quella di qualsiasi città europea, uno spaccato piuttosto realistico di una fetta non trascurabile del complesso mondo giovanile di questi tempi. E lo fa in modo abbastanza autentico, nel senso che riesce a rendere efficacemente tutta una serie di atteggiamenti e vissuti caratteristici di alcuni tratti di questa generazione, che ovviamente non la definiscono in modo assoluto, ma in questo caso l’opera di un ventunenne, che probabilmente ne è parte integrante, ne coglie molto bene taluni aspetti espressi in modo particolarmente veritiero: l’indolenza, la noia, l’essere un po’ allo sbando senza preoccuparsene mai più di tanto, il protrarre il più possibile delle condizioni di inerzia senza doversi chiedere dove si sta andando o perché, di qualsiasi ambito della vita si tratti.
La durata è decisamente eccessiva, due ore abbondanti di una fotografia, per quanto ben fatta, sono troppe, peraltro probabilmente un eccesso voluto, volto a rendere la visione estenuante e snervante come lo sono il modo di vivere e il mondo che l’autore racconta e di cui vuole trasmettere l’atmosfera. Un mondo in cui le emozioni sono appiattite e rese sterili dalle droghe, che sedano l’ansia ma rendono rallentati, senza interessi particolari, in cui le relazioni sono intercambiabili, in cui non c’è ambizione o grinta, in cui tutto è sfumato e reso di poco conto pur di non affrontare la paura di mettersi realmente in gioco. Non vi è una trama lineare, una narrazione definita, così come nella vita di questi ragazzi, non vi è niente di nitido o scelto, niente di se stessi che potrebbero raccontare. Diciamo che in questo senso anche la forma del film è una vera e propria rappresentazione del loro modo di vivere, un eterno rave psichedelico (vi è una buona mezz’ora del film che è incentrata totalmente proprio su una di queste feste), il fluire di questo vivere apatico, abulico e senza scopo, in cui si ride senza senso sotto l’effetto di una canna ma non si sa perché, un mondo incurante, le sue luci, la sua musica martellante e monotona, senza melodia, l’assenza totale di soggettività. Un quadro nel quale tutto viene inghiottito, ma sopratutto la creatività, l’entusiasmo, qualsiasi interesse reale e individuale. Ogni cosa viene vissuta per inerzia: un colloquio di lavoro, lo studio, le relazioni, perfino il sesso. Anche l’affetto c’è, ma non importa tanto con chi lo si vive, è una specie di orpello accessorio che segue poco più dell’attrazione immediata del momento ma, con lo stesso poco slancio impersonale con cui è iniziato, finisce o viene rivolto ad altri, si tratti di amicizia o di coppia.
C’è un dialogo piuttosto esplicativo di questo, in cui il protagonista, Chico (Pedro Marujo) afferma di non poter dire di conoscere le persone con cui si relaziona, che le conosce solo in quel turbine di nulla e di atteggiamenti impersonali e insensati che hanno ogni volta che le vede. Dice “Le persone che eravamo ieri alla festa, non siamo veramente noi, non ci conosciamo. “Tizio” per esempio, se lo incontrassi per strada non lo riconoscerei, come potrei riconoscerlo se non stesse volteggiando su se stesso, io lo conosco solo così, non so nient’altro di lui”.
Ecco, sono più atteggiamenti, movenze, flusso, che individui. O meglio, ciò che sentono è seppellito da quel vagare senza connettersi per non sentire quanto sono soli e quanta paura hanno di vivere. Pedro Cabeleira probabilmente ha vissuto in prima persona ciò che ha poi trasformato in un film, la sensazione è che sia una realtà che conosce bene. Non è chiaro quale sia lo scopo di quest’opera se non quello di fotografare e testimoniare questo stile di vita, ma è abbastanza evidente che il giovane regista rappresenta un mondo verso il quale non è mai giudicante o critico, documentandolo senza appesantirlo con moralismi superflui. A più di una persona che lo ha visto, il film ha ricordato, per struttura e per contenuti, l’ultimo film di Abdellatif Kechiche, Mektoub, My Love: Canto Uno, presentato quest’anno a Venezia, che ha riscosso molto più consenso, ma, che a uno sguardo più accurato, può considerarsi meno autentico e più furbo rispetto a questa opera d’esordio di un ventunenne che, seppur meno matura, è un lavoro più sincero, meno ammiccante e più apprezzabile.