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35 Torino Film Festival: Messi and Maud, l’intenso esordio alla regia di Marleen Jonkman

Un bimbo cileno e una donna europea si incontrano e si curano a vicenda percorrendo un tratto della loro strada insieme attraverso i meravigliosi paesaggi cileni. Marleen Jonkman, al suo esordio, mette in scena un’intensa e fugace relazione

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Due bisogni primari si incontrano e si curano l’un l’altro in Messi and Maud, lungometraggio d’esordio di Marleen Jonkman, presentato in seconda giornata nella sezione Festa Mobile del Torino Film Festival. Entrambi vissuti e trasmessi, con intensità e delicatezza, dalle doti interpretative e dall’espressività dei due protagonisti, che ne assorbono e testimoniano la drammaticità senza mai esasperarla,  muovendosi con disinvoltura nell’ambito di una messa in scena asciutta e elementare ma non banale.

Una donna e un bimbo cileno di sette anni in qualche modo si trovano e camminano insieme attraverso i meravigliosi paesaggi dell’affascinante paese sudamericano per un breve tratto della loro strada, abbastanza da riscaldarsi a vicenda, da sfuggire ai loro vuoti per un po’, da distrarsene forse illusoriamente, ma unendo le loro sensibilità in modo tale da poter essersi vicendevolmente di conforto. Lei, circa 40 anni, angosciata dal dolore intollerabile di non aver avuto dei figli, tormentata dall’impossibilità di fare i conti con una realtà incompatibile con quel suo sentire imprescindibile. È un sentire sì, molto più che un istinto o qualcosa di prettamente biologico. È un magma profondo, che riguarda molto più l’affettività che non la biologia. L’urgenza di essere madre. Quel qualcosa di innato, insito, che non si può spiegare, che chi ha dentro di sé non è in grado di descrivere a parole tanto è pregnante e pervasivo, che non è assoluto o universale ma quando esiste non lascia scampo. Essere genitore è un’esigenza intrinseca che caratterizza, riempie, colora, nutre l’essere dell’individuo che la prova (non necessariamente una donna), che gli dà forma, senso, che è già parte del suo vivere fin dall’inizio, indipendentemente da ciò che gli accade, dal corso che prende la sua vita, indipendentemente anche dal fatto che si concretizzi o meno. È così, lo identifica e basta, non è una scelta. E per questo è praticamente impossibile, intollerabile, prendere atto del doverci rinunciare quando la vita lo nega, è una perdita dilaniante, un lutto. Un lutto paradossale perché in teoria si perde qualcosa che non esiste ancora, che non esisterà mai, ma in realtà quel qualcosa è già lì, c’è sempre stato, è parte di sé, così accettare che non debba accadere è come vederla distrutta quella parte, è sentirsi spezzare dentro, è non riconoscersi più, è perdere senso. Quando lo si ha nell’anima così grande e così forte, è l’unica cosa che non ci si sente in grado di poter sopportare, l’unica cosa che non si riesce a concepire di poter morire senza aver vissuto.

Ed è molto brava la regista a comunicare tutto questo soltanto con le immagini e con gli stati d’animo, senza esprimerlo verbalmente, soprattutto nella prima parte del film, quando in vacanza in Cile, Maud (Rifka Lodeizen) si trova a dover fare i conti con questa consapevolezza, a non reggerla e a crollare, riuscendo soltanto a fuggire, dalla sua vita e da se stessa. Messi (Cristobal Farias) invece è un bambino introverso, sembra piuttosto solo, un padre rozzo e violento che non lo vede, una mamma che ama ma lontana, evidentemente abituato a non ricevere calore, a farsi bastare le briciole. Sogna di diventare come il suo calciatore preferito. Così, quando incontra qualcuno che non desidera altro che una creatura di cui occuparsi, le regala questa occasione e si prende il suo affetto in cambio. Fa fatica a prenderselo, non vi è avvezzo, si scosta ogni volta che la donna prova a toccarlo, non regge troppo il contatto fisico, sfugge l’abbraccio quanto più ne ha bisogno, ed è una tensione palpabile quella che in qualche modo percepiamo corrispondente a quel bisogno, sperando sino alla fine che si conceda di appagarlo. Non ne regge il contatto ma non riesce a staccarsi da lei, la respinge ma sta bene quando le è vicino, così la accompagna, finge di essere suo figlio, suo nipote, per poterle stare accanto e trascorrere del tempo prezioso insieme. Un tempo tenero, dolce, in cui c’è spazio per l’affetto ma anche per la rabbia, un tempo vero, in cui non ci si deve nascondere, senza schemi, solo loro, a compensarsi per un po’. E un tempo finito, che entrambi sanno essere a termine, ma non per questo non lo vivono, se lo prendono, ne assaporano i momenti, non se lo negano, è un processo salutare, sano, giusto, non importa se si sono appena conosciuti, se non sono davvero madre e figlio, se dovranno comunque lasciarsi, se sono una donna e un bambino con due vite lontane. Non importa perché riconoscono e danno spazio a quella parte di sé che era al buio, chiusa, sola e la fanno respirare. Gli viene naturale farlo, viene da sé, e niente di ciò che viene naturale può essere sbagliato. Niente di ciò che nasce spontaneo e reciproco può essere un errore. E non dovrebbe finire. Ma purtroppo spesso ciò che è bello e prezioso ha una fine.
È una specie di legge non scritta, come se la vita non dovesse mai concedere troppo, come se ci si dovesse ricordare di non poter sfuggire al proprio destino. E se Messi tornerà dalla sua mamma, Maud non potrà che ritrovarsi da sola a cercare il modo di sopravvivere a quel vuoto infinito che niente potrà colmare.

Presentato in anteprima mondiale nella sezione Discovery del Festival di Toronto, il film è girato prevalentemente in spagnolo, non è privo di difetti, la sceneggiatura non è sempre fluida e probabilmente trova il suo valore soprattutto nella drammaticità e nell’efficacia dei singoli momenti (vi sono un paio di scene davvero intense) ma è un debutto di tutto rispetto di cui vale assolutamente la pena la visione. Si spera che possa essere distribuito in Italia.

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