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Revenge di Coralie Fargeat, un thriller ipnotico e corporale

Se da un lato Revenge pecca di un eccessivo compiacimento verso l’aspetto materico, che a volte trascende la stessa struttura narrativa, dall’altro è un’opera prima che rivela una regista con una capacità di utilizzare la macchina cinema in modo sinestetico, regalando un’estetica contemporanea dell’immagine in movimento ammaliante e ipnotica

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Revenge di Coralie Fargeat è un film programmatico e tautologico fin dal titolo, dove si assiste alla messa in scena di una cruenta vendetta da parte di una donna nei confronti di tre uomini che le fanno violenza.

Jen (Matilda Lutz) è ospite del suo amante Richard (Kevin Janssens) in una moderna villa in mezzo al deserto. Dopo una notte di sesso arrivano due amici dell’uomo. Tutti e tre sono in quel luogo sperduto per cacciare. La prima parte del film – molto veloce – è la premessa di ciò che si svolgerà nei due terzi successivi della visione: Jen è una ragazza bellissima e sensuale e scatena gli istinti bestiali di uno dei due amici di Richard che, approfittando dell’assenza di quest’ultimo, violenta la ragazza.

Coralie Fargeat, giovane regista al suo debutto dietro la macchina da presa, mette insieme un tema forte e molto attuale come quello della violenza sulle donne, spettacolarizzando il tutto e scrivendo una sceneggiatura che nei contenuti è abbastanza didascalica e scoperta, mentre nella sua realizzazione ha un certo fascino visivo. Possiamo individuare due temi in Revenge, uno più scoperto e l’altro più sottile. Con il primo abbiamo la rappresentazione draconiana dei personaggi, che sono a tutti gli effetti delle maschere: Jen è la donna libera, indipendente, cosciente del proprio corpo, che agli occhi dei tre uomini diventa oggetto dei loro desideri sessuali; i tre uomini sono cacciatori senza scrupoli dove la preda è il femminino, trasformato in corpo da colpire. Abbiamo Stan (Vincent Colombe) il viscido e vigliacco violentatore – oltretutto rappresentato più volte come un rettile in un montaggio simbolico con l’animale; Dimitri (Guillaume Bouchede), un uomo grasso e volgare, indifferente e complice delle azioni degli amici; Richard, l’amante giovane e prestante fisicamente, è il freddo opportunista che arriva ad assassinare Jen gettandolo da una rupe, dopo aver cercato di comprarne il silenzio. Jen, dunque, in Revenge è uccisa tre volte: sessualmente, moralmente e fisicamente dai maschi che rappresentano i comportamenti violenti dell’uomo nei confronti della donna.

Il secondo tema più sottile è quello del corpo come oggetto di piacere e strumento di metamorfosi. Fargeat in tutto Revenge riprende sempre dettagli del fisico di Jen, mettendone in evidenza le zone erotiche e scatenanti il desiderio sessuale, in una pulsione scopica per chi guarda che ricorda l’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme: “Il desiderio nasce da quello che osserviamo ogni giorno. Non senti degli occhi che girano intorno al tuo corpo? E i tuoi occhi non cercano fuori le cose che vuoi?”. In una rappresentazione dove tutti sono potenziali serial killer – fisici e morali – solo per la volontà di possesso dell’altro in quanto oggetto di desiderio e compiacimento delle pulsioni individuali al piacere fine a se stesso e non come persona con cui confrontarsi e immedesimarsi.

Revenge punta quindi sull’aspetto animalesco e Fargeat costringe alla trasformazione del proprio corpo Jen – interpretata da Matilda Lutz con grande cipiglio e capacità di trasformarsi fisicamente per la prova attoriale. Fargeat però forza la protagonista a rinascere dalle ceneri come una fenice (metafora alquanto scontata), ma soprattutto impone ancora una volta una continua violenza sul corpo per poter combattere e affermarsi come donna.

Questi temi sono immersi da Fargeat all’interno di un grand guignol dove il sangue che fuoriesce dai corpi è copioso come le ferite di un San Sebastiano o i corridoi di Shining di Stanley Kubrick, in colori molto saturi dove prevale il rosso, il giallo, l’arancione. Colori caldi per aumentare visivamente la temperatura visiva. Oltre tutto, Fargeat utilizza spesso il grandangolo per i dettagli di bocche e parti dei corpi dei personaggi e alterna il commento musicale techno-pop con il sonoro diegetico amplificato e rallentato. Queste soluzioni sono combinate poi a campi lunghi del deserto e dell’esterno della moderna villa, con la sua piscina che si affaccia sulle montagne all’orizzonte, che potenziano il senso di solitudine dei personaggi e forniscono un proscenio naturale atemporale e dai confini spaziali indefiniti che rende emblematica e spettacolare la messa in scena.

Revenge è un film che prima di tutto permette un’esperienza sensoriale forte allo spettatore, e la regista è brava a mantenere sempre la tensione molto alta. Forgeat ha dichiarato che le sue fonti di ispirazione vanno da Under The Skin di Jonathan Glazer al cinema di David Cronenberg. Noi ci vediamo anche alcuni stilemi del cinema di Luc Besson – come quelli presenti in Nikita o in Leon –  e questo non è, sinceramante, l’aspetto migliore della pellicola. Ma se da un lato Revenge pecca di un eccessivo compiacimento verso l’aspetto materico che a volte trascende la stessa struttura narrativa, dall’altro è un’opera prima che rivela una cineasta con la capacità di utilizzare la macchina cinema in modo sinestetico, regalando un’estetica contemporanea dell’immagine in movimento ammaliante e ipnotica.

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