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35 Torino Film Festival: Il fantasma del palcoscenico è uno straordinario esempio di cinema tra le tante opere della retrospettiva dedicata a Brian De Palma

Il fantasma del palcoscenico è uno straordinario esempio di cinema, tra i primi lavori del cineasta americano Brian De Palma, che rappresenta a pieno titolo una delle visioni più appaganti per qualsiasi amante della Settima Arte

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Nel tentativo di rendere doverosamente omaggio a Brian De Palma, grandissimo regista cui quest’anno il Torino Film Festival ha dedicato una splendida retrospettiva, c’è davvero l’imbarazzo della scelta tra le numerose opere su cui soffermarsi, una più bella dell’altra, delle quali sono previste più proiezioni durante la manifestazione, inserite come stelle luminose sparse tra le altre pellicole presentate al festival.

Si è già detto e scritto ormai probabilmente tutto su The phantom of the paradise (Il fantasma del palcoscenico in italiano), straordinario esempio di cinema, tra i primi lavori del cineasta americano, che rappresenta a pieno titolo una delle visioni più appaganti per qualsiasi amante della Settima Arte. Facendo appello a tutto il suo talento, De Palma realizza un’opera straordinaria, impossibile da collocare in un’unica categoria, nella quale mescola elementi appartenenti a più generi, horror, dramma, musical, rendendola così una creazione propria e originale. Musica e cinema si fondono in un meraviglioso tutt’uno corredato da colori, luci, costumi e sceneggiatura perfetti, che avvolge e contemporaneamente perturba lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con aspetti controversi e oscuri della sua natura e della realtà in cui vive. Un cinema che si celebra e si autocita ma nello stesso tempo canzona se stesso (ne è un esempio la scena sulla falsa riga di quella della doccia di Psycho), pullulando di citazioni e di riferimenti, che comprendono grandi modelli tra cui Orson Welles, Hitchcock, Friedrich Wilhelm Murnau e il suo Faust del 1926 e Robert Wiene con Il gabinetto del dottor Caligari.

Profetica allora e attualissima ancora oggi, la pellicola rappresenta, tra le altre cose, una riflessione a più livelli sull’arte, sulla corruzione del mondo che le gravita introno e di cui fa parte, sulle distorsioni dell’evoluzione della tecnologia, ma anche sull’essenza umana e sul suo sacrificio a favore di un riconoscimento, sull’eterno contrasto tra la necessità di essere se stessi e di salvaguardare una propria autenticità e il dovervi rinunciare per poter appartenere a una moltitudine condivisa. Come è noto, la narrazione gravita intorno al fulcro costituito dal mito universale e intramontabile del vendere l’anima al diavolo in cambio della realizzazione di desideri che non si è in grado di raggiungere con i propri strumenti. L’autore si muove in quest’ambito ambientandone la sua personale visione nei propri tempi e nell’ambiente della discografia, ispirandosi a riferimenti artistici appartenenti a periodi diversi ma con lo stesso denominatore comune – il Faust di Goethe, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, Il Fantasma dell’Opera di Leroux -restituendo così l’immagine di un’arte che non ha tempo, eterna, mutevole e sempre necessaria, ma anche costantemente inficiata da un prezzo da pagare per poter essere riconosciuta.

De Palma ne esalta il valore ma nello stesso tempo è irriverente e caustico verso il suo mondo e tutto ciò che lo circonda, verso le sue evoluzioni nel tempo, sottolineando le discrepanze tra il farne parte e restare integri, riaffermando e constatando amaramente la dura e arcinota legge secondo la quale il mondo delle masse inghiotte l’individualità, l’essenza pura, la linfa propria di ogni individuo, per disperderla, appiattirla e renderla parte informe e conforme di una realtà compressa, livellata e adattata a uno standard comune.
O soli e ricchi del proprio valore individuale o insieme ma omologati, insomma. A un livello più esplicito il regista riflette su un mondo dello spettacolo corrotto e subdolo, mentre si sposta su un livello più profondo e intimo nell’osservare l’animo umano e le sue contraddizioni. Si pone l’accento quindi sul prezzo da pagare per veder riconosciuta la propria arte, ma anche più profondamente per poter esistere, per poterci essere, per poter amare. Tutto ha un prezzo, mantenere un’immagine gradevole, restare giovani, il successo ma anche la generosità, l’amore, la vita stessa, la propria essenza, quindi l’arte che ne deriva è il prodotto più prezioso. Il prezzo per esserci in un mondo in cui non si è soli è perdersi, è diventare un mostro, smarrire la propria voce, il proprio volto, tutto ciò che identifica la persona come unica e irripetibile, rinunciando alla speranza e alla gioia, fino a morirne. Morirne, sì. Perché il prezzo è troppo alto.

È risaputo che vendere se stessi, per ottenere qualcosa che non giunge naturalmente, non può che essere fonte di degenerazione. L’urgenza che porta a perdersi, a rinunciare a se stessi, a vendersi pur di ottenere consenso, non è tanto l’esigenza di riconoscimento, o quantomeno quella è una necessità secondaria al bisogno primario di condivisione del proprio essere e quindi della propria arte, perché alla fine dei conti si torna sempre lì, nulla ha valore se non lo si può condividere, se non lo si può vivere in un “con”, in un “insieme” partecipe e sentito, nella vita come nell’arte; nulla, per quanto possa essere prezioso, come la meravigliosa musica creata dal protagonista Winslow Leach, il fantasma interpretato da William Finley, è appagante se non vi è compartecipazione, se quel sentire così intenso e traboccante, sia esso di dolore, di rabbia o di gioia, da portare a sviluppare il talento per essere in grado di dare alla luce una qualsiasi forma d’arte, non raggiunge l’anima di qualcuno e chi la ha realizzata non è consapevole di averla toccata. Un incontro necessario che avviene tra l’artista e il suo pubblico così come tra l’essere umano e l’altro per lui significativo. Ed è un bisogno talmente forte che induce a cercare scorciatoie, a fare dei compromessi con se stessi, sino a rinunciare alla propria autenticità e a perdersi, ottenendo, al contrario di ciò cui si auspica, soltanto devastazione e distruzione, in quanto per arrivarci si rinuncia a quell’essenza che si voleva condividere, all’anima con la quale si voleva incontrare le altre. E un’arte o una vita senza anima non può incontrare nessuno. I sentimenti umani di affetto, di perdita, di dolore espressi in modo potentissimo dai testi e dalle musiche di straordinaria bellezza scritte da Paul Williams (anche uno degli interpreti principali nel ruolo del perfido Swan), si uniscono alla riflessione e ne diventano veicolo, riscaldando e illuminando il mondo che quella riflessione vuole denunciare, quasi a non voler cedere alla sue distorsioni, mossi dal bisogno di mantenere viva la speranza che quell’essenza non debba perdersi o uniformarsi, che non debba necessariamente corrompersi per poter accedere a un mondo condiviso, dall’esigenza che quella triste realtà così comune e umana non debba essere l’unica opzione possibile.

Dream a bit of style, we dream a bunch of friends, dream each others smile and dream it never ends.

To work it out, I let them in, all the good guys and the bad guys that I’ve been, all the devils that disturbed me and the angels that defeated them somehow, come together in me now.

Due soli semplici versi tra i tanti che compongono i pezzi della splendida musica di questo film ne riassumono da soli l’essenza, quella imprescindibile urgenza di reciprocità e l’altrettanto inevitabile convivenza in ogni uomo, del proprio essere più profondo e vitale e dei suoi fantasmi.

  • Anno: 1974
  • Durata: 90'
  • Distribuzione: CG Entertainment
  • Genere: Musicale
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Brina De Palma

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