All’interno della più ampia cornice del MedFilm Festival vi è, da qualche anno, la possibilità di pescare anche tra i titoli inerenti ai LUX Film Days. Ed è in genere un bel vedere. Ricordiamo ad esempio Mustang di Deniz Gamze Ergüven, lungometraggio che venne proiettato qui a Roma un paio di anni fa: trattasi di una vibrante opera proveniente dalla Turchia e focalizzata principalmente sulle problematiche della condizione femminile, nonché sul difficile rapporto tra vecchie e nuove generazioni. Pure per questa edizione 2017, in attesa di un film scandinavo ambientato presso il popolo lappone (ovvero Sámi Blood di Amanda Kernell) che aspettiamo con viva curiosità, il LUX Film Prize ci ha regalato una piccola perla: Western, diretto da un’altra donna e per la precisione da Valeska Grisebach, nativa di Brema.
Dei dati biografici di Valeska Grisebach, classe 1968, ci hanno colpito non pochi aspetti, dall’aver studiato Filosofia e Letteratura tedesca a Berlino, Monaco e Vienna, all’aver poi frequentato nella stessa Vienna l’Accademia del Cinema dal 1993 al 2001, con insegnanti del valore di Peter Patzak, Wolfgang Glück e, soprattutto, Michael Haneke. Ma ancor di più ci ha fatto pensare il fatto che la Grisebach, prima del suo esordio al lungometraggio di finzione nel 2001 con Mein Stern, avesse già girato svariati documentari. Ed è proprio questa solida formazione documentaristica ad emergere con forza in Western, laddove lo sfondo antropologico e paesaggistico ingloba con tale naturalezza la vicenda umana che si vuole raccontare nel film.
I tratti così peculiari delle località scelte per le riprese hanno di sicuro un carattere segnante. La storia è ambientata infatti in territorio bulgaro, in una zona rurale e boschiva al confine con la Grecia, dove una ditta tedesca ha l’incarico di portare a termine alcuni lavori necessari alla costruzione di una centrale idroelettrica. Teutonici operai, quindi, alle prese con la diffidenza e con l’esistenza quieta, per non dire piatta, della gente del posto. E ciascuno di loro, a partire dal così solitario, ombroso ma in fondo bendisposto protagonista, ci mette qualcosa di suo, nel tentativo di comunicare con gli autoctoni. Qualcuno risulterà inevitabilmente più opportunista, altri più volenterosi, sinceri. Ma ciò che poco alla volta si genera e che fa presa sullo spettatore, portandolo ad essere emotivamente partecipe per le ben due ore di durata del lungometraggio, è un clima da “lost in translation” perenne, che il desiderio di conoscenza reciproca espresso dalle due parti riuscirà solo in parte a scalfire. Il risultato? Tra ricordi dell’alleanza tra i due popoli nella Seconda Guerra Mondiale e difficoltà a trovare una sintonia nel presente, ad affermarsi è un cinema di frontiera nel cuore della vecchia Europa.