Babylonia mon amour è un film sulla sopravvivenza. Il racconto di una realtà drammatica e viva, attuale e radicalmente veritiera, che è il frutto di un processo di studio prolungato ed immersivo di un pezzo di società. In origine c’è il viaggio in Spagna dell’autore e regista Pierpaolo Verdecchi, che racconta agli spettatori del MedFilm Festival il suo bisogno di “vivere un’esperienza nuova , lontano dalla cultura e dalla società italiana”. A Barcellona inizia a seguire un gruppo di ragazzi senegalesi e ne racconta attraverso il documentario lo sforzo di sopravvivere al quotidiano e di adattarsi ad una società complessa, diversa e vessata da conflitti interni.
“Il territorio dei migranti, spiega Verdecchi, era la realtà che mi interessava di più, quella che spesso si sconsiglia di frequentare”, perché pericolosa, perché diversa, perché incompresa, nella sua singolarità culturale e non nell’accezione patetica del termine.
Ciò che sorprende di Babylonia mon amour è l’assoluta immersione dello sguardo registico all’interno della realtà raccontata.Una realtà in cui scorrono emozioni differenti, che pulsano sottopelle e si illuminano nella fotografia drammatica ed apocalittica delle immagini in bianco e nero. Colpisce la “facilità” del primo piano, la capacità di avvicinarsi così tanto ad una materia incandescente e di restituirla poi allo spettatore nella sua caotica naturalezza. È evidente, ma non scontato, che questo risultato sia stato raggiunto solo dopo un anno di semi-convivenza dell’autore con i suoi testimoni, vivendo in prima persona i centri occupati, le strade e le piazze di Barcellona.
Questa vicinanza dello sguardo permette di cogliere dei documenti di realtà, dei frammenti di vita, che si realizzano nell’estetica del long take del cinéma vérité. Le testimonianze dei protagonisti acquistano per questo una forza spaventosa ed alcune si rivelano per la loro importanza in chiave storica e sociale: come il racconto dei viaggi sui barconi nel Mar Mediterraneo, vissuti in prima persona. In Babilonia mon amour le immagini parlano e sono pregne di signficato, anche e soprattutto nella dimensione del racconto quotidiano dei protagonisti. Emerge il punto di vista del reietto, del diverso, dell’inaccettato, ma soprattuto la distanza fra una società occidentale, con i suoi meccanismi, e una realtà estranea che lotta per il proprio spazio vitale. Tutto senza giudizi politici o soluzioni praticabili, poiché Babilonia mon amour è una storia che osserva l’Occidente dalle sue stesse macerie, a partire dalla periferia fatiscente, che recupera la dimensione del ghetto, dell’isolamento e dell’incapacità di “integrarsi”.
Dopo la proiezione, ci si confronta con Pierpaolo Verdecchi sul senso del termine e l’autore ne evidenzia il segno istituzionale e la conseguente vacuità, posizione ampiamente testimoniata nel film. Il suo punto di vista, forse, sta proprio in quest’ultima presa di posizione: ovvero nella volontà di raccontare come l’incapacità di integrarsi coincida soprattutto con l’incapacità di contemplare il potere. Questo si evince dalla lontananza fra la realtà istituzionalizzante, della burocrazia e dei simboli governativi, e l’entroterra culturale dei protagonisti, che recupera una dimensione quasi sacrale nei canti e nella musica popolare senegalese. In questo senso, la Babilonia verso cui imprecano i personaggi del documentario non è altro che lo scarto di decadenza, corruzione e disumanizzazione che si cela nel baratro immenso e problematico fra queste due realtà, inconciliate e forse inconciliabili.
Emanuele Paragallo