“Al suo esordio alla regia, Luciano Capponi, proveniente dal teatro, azzarda un film ambizioso, che si confronta con questioni cruciali. L’esito, purtroppo, non è convincente”.
L’estate è arrivata da quattro giorni e con essa quel mix di ebrezza/sonnolenza che accompagna le giornate di chi vive nelle afose città italiane. La voglia di lavorare scarseggia, si sogna il mare e il relax e magari non si ha neppure tanta voglia di buttarsi nella frenetica movida del fine settimana. A coloro che, troppo stanchi per far qualsiasi cosa, preferiscono godersi un bel film al cinema si consiglia vivamente di astenersi dalla visione dell’esordio alla regia di Luciano Capponi, Butterfly Zone – Il senso della farfalla. Il rischio sarebbe quello di crollare inesorabilmente in un sonno profondo (in alcuni casi irreversibile) e di sprecare i soldi del biglietto che potrebbero, a questo punto, essere spesi meglio per una bella coppa di gelato.
Duole dirlo, ma questo film ha un effetto soporifero pazzesco. Cento minuti di pellicola che paiono alterare la percezione temporale, dilatandola inesorabilmente di almeno quattro ore.
La causa di tutto questo risiede probabilmente nel fatto che la storia di per sè non è molto facile da seguire. Aldilà e aldiquà. Fisica quantistica e surrealismo. Teorie scientifiche e umorismo popolare. Fantascienza e spy story. Dulcis in fundo citazioni cinematografiche, soprattutto felliniane. Un calderone confuso ed eccessivo che non coinvolge e non interessa lo spettatore. Perchè un filo conduttore della vicenda non esiste: esistono solo sketch, frammenti di idee che sfuggono, cozzano, stridono e alla fine deludono.
Un uomo, Vladimiro, perde il padre, il prof. Chernier, e lo ritrova nell’aldilà bevendo vino. Attraversa questo confine con l’amico d’infanzia Amilcare, simpatico e genuino, che non perde mai l’occasione per sparare una delle sue ‘esilaranti’ battute anche quando non ve n’è nessuna ragione. In uno di questi viaggi, i due riportano nell’aldiquà un terribile serial killer che inizia a compiere efferati omicidi. Entrano quindi in ballo forze di polizia, servizi segreti, sette magiche. Da andare ai pazzi se, appunto, non ci si è addormentati prima. E a nulla è valsa la bravura di tutti gli interpreti (innegabile) che da sola non riesce a tenere il ritmo e evitare la tentazione di finire tra le braccia di Morfeo.
Una trama che avrebbe funzionato certamente di più a teatro, luogo ‘di nascita’ del regista (che è anche autore e compositore) e ambiente più adeguato ad un tipo di sperimentazione come quella immaginata da Capponi. Quando, ad inizio secolo, i fratelli Lumiéré hanno inventato un congegno chiamato cinematografo è nata un’arte, chiamata Cinema, che ha i propri tempi, il proprio linguaggio, la propria vita. Una questione di selezione naturale dunque. La teoria di Darwin non potrebbe in questo caso essere più azzeccata: la mescolanza di generi diversi a volte crea altri generi più forti che superano i limiti dei predenti e continuano l’evoluzione, altre volte tali incroci creano soltanto risultati sterili e perciò destinati all’estinzione.