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Malarazza, il film che restituisce la Sicilia ai siciliani: intervista al regista Giovanni Virgilio

Restituire la Sicilia ai suoi aspetti meno romanzati, attraverso un neorealismo che, volgendosi al passato, ha per modelli film come Mary per sempre e Ragazzi Fuori. Alla vigilia dell’uscita nelle sale di Malarazza, abbiamo incontrato il regista Giovanni Virgilio

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Volevo iniziare dalla scelta di raccontare due dei quartieri più degradati di Catania e cioè Librino e San Berillo.

Da Catanese sentivo l’esigenza di raccontare una realtà che altre volte era stata riportata attraverso falsi miti, costruiti per affascinare le generazioni più giovani. Il mio film compie un percorso inverso perché pur essendo crudo evita di esaltare la delinquenza e coloro che ne sono artefici. Malarazza esprime anche la necessità di reintregrare due quartieri che pur appartenendo in maniera viscerale al tessuto della città ne sono di fatto separati. San Berillo è a soli 300 mt dal centro urbano mentre Librino, distante 6 km rappresenta la sconfitta di quella politica che negli anni ottanta pensava di farne un’isola felice e che invece lo ha trasformato in una sorta di ghetto, isolato dal resto della città e con una popolazione lasciata allo sbando.

Si può definire “Malarazza” come film di genere?

Più che di genere parlerei di neorealismo. E’ normale che per raccontare questo tipo di Sicilia ci si possa avvicinare a film come Gomorra o Suburra. Io però penso di aver fatto un passo indietro di circa 20 anni, guardando a titoli come “Ragazzi fuori” e Mary per sempre”. I rimandi ai film di Garrone e Sollima sono in parte il frutto della similitudine umana, architettonica e paesaggistica esistente tra le diverse periferie d’Italia. Quelle di Napoli hanno molti punti in comune con Tor Bella Monaca o San Basilio a Roma. Se poi guardassimo a queste realtà dal punto di vista dell’integrazione e delle problematiche sociali ci accorgeremo che altrettanto simili alle nostre sono per esempio le banlieu parigine. Avendo un approccio di tipo neorealista cerco di lavorare con tecnici e attori che da sempre operano su questo versante, e che sono un po’ gli occhi e la faccia di questi posti. Mi piace pensare di aver fatto un cinema verità, lontano da produzioni come quelle de “Il capo dei capi” che mitizzano in maniera sbagliata gli aspetti più bui della nostra isola.

In realtà il lavoro che hai fatto su Malarazza è ricco di sfaccettature delle quali fa parte la scelta di far convivere la tensione drammatica con momenti di puro melodramma.

Fin dal principio ho definito questo mix come un ciclo dei vinti proprio per l’importanza del canone melodrammatico. Oltretutto Catania è una città piena di sfaccettature e con il mio film non ha fatto altro che rispecchiarle. Prendi San Berillo, dove, da una strada all’altra si cambia continuamente scenario, passando da angoli depressi e dimenticati ad altri che, al contrario, sono caratterizzati da una bellezza assoluta. Pensa allo scorcio che ospita il teatro Massimo Bellini, il terzo teatro più bello d’Europa.

Mi dicevi prima che ti sei prodotto il film in proprio. È forse questo la ragione della libertà che si respira in Malarazza?

Una produzione indipendente stimola l’ispirazione del regista. Io sono anche il titolare degli studi cinematografici che hanno realizzato il film e grazie a questo ho potuto avvalermi di super professionalità come quelle del direttore della fotografia Giovanni  Mammolotti e di un operatore di macchina come Fabio Sergenti che mi hanno permesso di fare un cinema di sentimento in cui sono riuscito a cogliere l’odore dei posti. Una cosa pressoché impossibile quando si lavora con le grandi produzioni.

Nel film due temi sono ricorrenti: il primo, presente in molto cinema d’autore, è quello del Sud come terra che obbliga chi vi nasce ad abbandonarla, il secondo, tipico del filone noir, indaga sull’impossibilità del singolo di liberarsi dai retaggi del proprio passato. È giusto dire che la narrazione oscilla tra questi due poli?

Rivendico sempre la mia sicilianità, la mia palestra è stata la strada e non il centro sperimentale. Chi non è nato in questa terra e ci è venuto solo per girare un film non riesce a ricreare il rapporto di odio e amore che abbiamo nei confronti della nostra regione. Io sono il primo emigrante perché per fare questo lavoro sono dovuto partire. So di cosa parlo e conosco come trasmetterlo perché fa parte della mia essenza. Ecco, penso si debba tornare a girare in questo modo, raccontando il quotidiano dal di dentro. Sono giovane e può sembrare presuntuoso dirlo ma se vogliamo riportare il cinema alla normalità questa è la strada. Sullo schermo ci dobbiamo essere innanzitutto noi e le nostre idee e solo dopo ciò che vuole il pubblico.

I motivi di cui ha appena parlato conferiscono al film una precisa identità e fanno si che non si rimanga indifferenti alla sua storia.

Come ho fato nel mio primo film tendo a partire piano e poi procedo con un progressivo accumulo di fatti e di sensazioni. Di solito nei film succede il contrario invece in “Malarazza” lo scatto in avanti rispecchia i pensieri di quelle persone che sono stufe di farsi togliere le cose sul più bello e che per questo vogliono andare fino in fondo, lottando a denti stretti per affermare ciò di cui hanno diritto. Se posso usare un eufemismo direi che il mio film vuole ammazzare il Gattopardo; un termine forte e che però serve a rendere la voglia di emanciparsi dall’immobilismo di certi modi di fare presenti da queste parti.

Tornando alla scelta di non mitizzare il milieu criminale, volevo che aggiungessi qualcosa sulla decisione di allontanarti dalla estetiche della maggior parte delle crime story televisive prodotte in Italia.

Pif con il suo film aveva preso in giro la criminalità. Partendo da questo riferimento  ti rispondo dicendo che da parte mia ho rincarato la dose attraverso la scena di sesso tra Pietro U Porcu – il boss della zona – e Franco – il transessuale fratello di Rosaria – nella quale la visione del primo che sodomizza il secondo diventa la metafora della rivincita di quella fetta di siciliani che da sempre si ribella al corso delle cose. Anche in questo caso la sequenza non è una forzatura dei fatti ma la trascrizione di avvenimenti reali.

La decisione di raccontare una storia che non lascia speranza ai suoi personaggi è una scelta commercialmente coraggiosa. Quanto è stato difficile farla?

È stato difficile solo in parte perchè io la vedo in modo diverso. Poter contare sulle risorse dei miei studi cinematografici mi consente di essere libero e di fare scelte scomode. Ho sempre considerato il cinema in luogo dove mi era possibile dire quelle cose che nella vita di tutti i giorni si fatica a tirare fuori. Scrivere una sceneggiatura così dura e per molti versi fuori dagli schemi è stato il modo per affermare quanto ci tengo alla mia terra. Rispettarla per me voleva dire descriverla senza veli, parlando di cose realmente esistenti. Spero che la mia regia venga comunque apprezzata anche solo per il fatto di essere riuscita a raccontare una Catania inedita a partire dalle immagini. Per mandare un messaggio ai mie concittadini e a tutte le persone del sud era necessario rischiare qualcosa e così ho fatto.

L’importanza dell’ambiente sul tessuto umano che lo popola si vede anche dal modo in cui lo riprendi, cercando spesso campi lunghi a suggerire il  rapporto tra sfondo e personaggi. Vorrei che mi parlassi di come hai concepito il film dal punto di vista visivo.

La scelta dei campi lunghi ha riguardato molto la parte periferica di Librino perché la tristezza di quei posti si mescolava bene con lo stato d’animo dei personaggi. Sono convinto che la fisiognomica di una persona cambi a secondo del posto in cui vive. Io ho un amore speciale per il piano sequenza coordinato. Nel film ci sono sequenze molto complesse per le quali devo ringraziare Fabio Sergente, operatore di Storia di una capinera e di Ragazzi fuori che mi ha dato la forza per riuscire a portarle a termine. Avendo già scritto la colonna sonora mi è capitato di improvvisare certi movimenti sincronizzandoli al commento musicale. In questo ambito le migliori soddisfazioni le ho avute nelle scene con i ragazzi più giovani: penso a certe inquadrature dove l’accostamento tra le facce dei giovani e le architetture dei palazzi rendeva al meglio l’idea della speranza che si infrangeva nella fatiscente struttura delle abitazioni.

Il tuo film è un’opera indipendente che sembra girata con i mezzi del cinema mainstream, anche per il frequente uso di dolly e di panoramiche. Mi viene da chiederti come lo avresti girato se avessi avuto più soldi. Se puoi, gradirei che mi facessi degli esempi pratici.

Una volta, a un collega che mi fece questa domanda risposi che non avrei cambiato quasi nulla. Per questo film mi viene da dire la stessa cosa. Nonostante le ristrettezze economiche mi sono potuto permettere tutto perché ho avuto una troupe che ha creduto nel mio progetto. Ti dico la verità: se avessi avuto i soldi mi sarei preso più tempo e quindi avrei aggiunto almeno altri sette giorni alla durata delle riprese. Se è vero che a livello di sceneggiatura c’è ancora qualcosa che non mi convince, la mia soddisfazione deriva dal fatto di essere riuscito a girare il film come volevo, grazie all’aiuto delle persone che erano sul set. Con qualche giorno in più sarei riuscito a montare l’inserto in cui filmo i ragazzi durante un bagno liberatorio, ma sono dettagli. Come dicevo, a rimanere è la felicità di aver ottenuto ciò che mi ero prefissato.

Il film è costruito su immagini molto potenti, come quella dell’omicidio nella spiaggia, in cui il movimento della macchina da presa, che parte dal basso e sale fino al cielo, sembra fissare il corpo senza vita di uno dei personaggi alla solitudine della terra.

Attraverso quella scena volevo dare la sensazione che in qualche modo esiste una giustizia divina che ci guarda dall’alto ed è pronta a intervenire nei confronti di chi si comporta in maniera sbagliata. Nel cinema di solito si vedono i corpi dei defunti volare verso l’alto mentre io volevo richiamare l’effetto opposto attraverso lo schiacciamento a terra della sagoma di Tommasino, il marito di Rosaria. Per farlo ho utilizzato un drone che è riuscito a rendere la solitudine di chi fa cose sbagliate. Dico sempre che la mafia è diversa dalla camorra. Per la prima i soldi sono tutto, la seconda, invece, fa sì che la brama di potere costringa le persone a passare l’intera esistenza nascosta in una casa di campagna o in uno scantinato. E’ questo tipo di isolamento che ho voluto ricordare. A onor del vero Tommasino è più un povero cristo che un vero cattivo. Escluso dal grande giro malavitoso si scaglia contro la moglie e il figlio non perché non li ami ma solo per sfogare le proprie frustrazioni. Tra l’altro, attraverso il personaggio interpretato da Stella Egitto, che nel film recita la parte di Rosalia, ho voluto smentire l’immagine remissiva delle donne siciliane, sostituendola con un’altra, questa volta reale, in cui invece abbiamo di fronte una femminilità tutt’altro che sottomessa. Spiegavo a un mio collega che in Sicilia comandano Sant’Agata e Santa Rosalia (ride) e che anche gli uomini più potenti si sono inginocchiati di fronte a loro.

Come dicevamo, il tuo film si dipana tra molte sfaccettature. In questo senso mi è piaciuta molto quella dal sapore almodovariano che vede Franco, il transessuale interpretato da Paolo Briguglia, intento a struccarsi sul sottofondo di una canzone spagnola molto nostalgica.

I luoghi si prestavano a questo tipo di fotografia e poi le case dei trans che vivono nel quartiere hanno queste luci rosse davanti alla porta. Ad eccezione di Paolo Briguglia, nel film  hanno recitato sette transessuali che abitano li, e che sono molto attivi nella vita della comunità. Esistono associazioni che li aiutano mentre loro partecipano attivamente alla vita della comunità. Tanto per fare un esempio, portano in giro i turisti nelle visite all’interno del quartiere. Questo per dire che, al di là della mia ricostruzione, ciò che si vede è preso dalla realtà. Loro ci hanno fatto vivere nel loro mondo e noi abbiamo cercato di riprodurlo cosi com’era e sempre con accenti di forte realismo.

A differenza degli altri personaggi, e come sottolinea ogni volta la scelta di illuminarne il volto con una croma rosso fuoco, Franco è l’unico che riesce a lasciarsi andare dal punto di vista dei sentimenti e della passione amorosa, quasi a dire che nella vita di oggi l’affettività è un lusso che non ci possiamo più permettere.

Si, è vero, la vita sentimentale è un lusso che i miei personaggi non possono permettersi. Però mentre giravo ho anche capito che nella periferia esistono ancora sentimenti veri. Lo si sente dalle canzoni (neo melodiche) ascoltate dalla gente e poi dall’unione che esiste nelle famiglie e tra le persone del posto. Molto spesso ero invitato in pranzi con tavolate di trentacinque commensali a cui dal nonno all’ultimo dei nipotini nessuno poteva mancare perché la domenica è sacra. Sempre durante la lavorazione ho visto lo spirito di condivisione e il patto di mutuo soccorso che esiste all’interno di questi sodalizi. Sarà perché hanno poco e ogni giorno sono costretti a escogitare qualcosa per farcela, fatto sta che l’altruismo di queste persone esiste ancora solo li.

L’interpretazione di Paolo Briguglia è di quelle da ricordare. Mi piacerebbe sapere come hai lavorato con questo attore e se anche tu sei dell’idea che il suo valore sia un po’ sottovalutato.

Paolo è l’umiltà fatta persona. E’ diverso dalla maggior parte dei suoi colleghi e sono d’accordo nel dire che meriterebbe ben altra considerazione. Per diventare Franco, il fratello di Rosaria, Paolo si è preparato alla maniera del cinema americano, depilandosi, vivendo con gli altri trans, e facendosi spiegare cosa significhi prostituirsi. Era così calato nel personaggio da essere stato adescato da clienti che nei panni del suo personaggio non lo hanno riconosciuto. Questo gli ha permesso di sentire su di se la degradazione dello sfruttamento subito da queste persone e, per quanto riguarda il film, di trasmetterlo attraverso la sua interpretazione.

Tra i meriti di Malarazza c’è quello di valorizzare un altro attore non molto utilizzato, qual’è Davide Coco, che nella parte del cattivo è davvero insuperabile.

Davide è stato bravo a costruire il personaggio riuscendo a far trasparire le sue fragilità anche laddove sembrano non esserci. Come ti ho detto prima lui per me è più una vittima che un carnefice. Certo, se la prende con la donna che amava e in generale con le persone più deboli ma il suo è il comportamento di un uomo che si è arreso al proprio destino. 

Volevo parlare dell’uso della musica alla quale tu dai il compito di far progredire la narrazione e di commentarne i fatti.

Ho distrutto psicologicamente Giuliano Fondacaro, autore delle musiche, e Luca Carrera, direttore del montaggio perché prima ho voluto che si componesse la colonna sonora, poi, dopo aver scritto la sceneggiatura insieme a Luca Arcidiacono, ho girato il film accompagnandolo con le tracce musicali di Giuliano. Una scelta coerente con le abitudini degli abitanti dei due quartieri,  i quali vivono ascoltando sempre queste canzoni. E, se, alcune di quelle che fanno da commento alle scene dedicate al personaggio di Paolo le abbiamo contestualizzate alla personalità dell’interessato, le altre, appartenenti al neo melodico, provengono dal repertorio di Matteo Milazzo fenomeno musicale a cui ho riservato una piccola parte all’interno del film.

Con quali aspettative attendi gli esiti dell’uscita nelle sale del tuo film?

Mi piacerebbe che il messaggio del film riuscisse ad arrivare ai più giovani, che li facesse riflettere su un certo tipo di scelte dalle quali non si torna più indietro. Per quanto mi riguarda vorrei ne fosse apprezzato il tentativo di uscire fuori dai canoni e che questo facilitasse la produzione del mio prossimo lavoro.

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