A qualche giorno dalla visione si sgonfiano anche quelle già comunque poche sensazioni positive lasciate da The only living boy New York di Marc Webb, uno dei diversi film che non lasceranno certo il segno tra quelli che hanno fatto parte della selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma. Vive di rendita di espedienti non propri questo concentrato di elementi già visti e di facile utilizzo, nel senso che il regista si muove senza la minima idea originale andando sul sicuro, a partire dalla scelta dei pezzi che compongono la colonna sonora, tra i quali A Perfect day di Lou Reed e Simon & Gurfankel, ai quali ruba sia canzone che il titolo per il film, per continuare con la celebrazione della solita bellissima, controversa, artistica, brillante New York, e ancora con un cast solido costituito da almeno due figure che non possono che dare consistenza a un prodotto di per sé piuttosto debole.
Non bastano quindi una seppur bella colonna sonora, le prestazioni sicure di Jeff Bridges e Pierce Brosnan che riempiono la scena e fanno il loro dovere al meglio confermando la loro esperienza, né il fatto che questo film rappresenti a onor del vero quantomeno un piacevole intrattenimento non sgradevole da guardare.
Ma non è sufficiente. Appaiono davvero troppo poco autentici, costruiti, leziosi, tutti gli aspetti che vengono messi insieme in una trama scontata con dei personaggi spudoratamente stereotipati, che in più si esprimono con quella che si può definire, senza il timore di essere ingenerosi, la sagra dei luoghi comuni, utilizzati senza ritegno e alcuni dei quali ai limiti dell’imbarazzante.
“La distanza più grande del mondo è quella tra la realtà com’è e come avrebbe potuto essere.”
“Lascia fare alla vita, non ti fidi abbastanza di lei.”
“L’unico modo di uscirne è passarci attraverso.”
Non c’è bisogno di commentarli. La scena è costellata di queste perle di saggezza mai sentite, pronunciate da personaggi altrettanto convenzionali quali lo scrittore alcolizzato vecchio e saggio, il padre ricco e indifferente con la puzza sotto il naso, la madre altrettanto ricca, annoiata, casalinga depressa e frustrata. Il protagonista, che dovrebbe essere il personaggio più significativo, interpretato da Callum Turner, è un ventenne imbranato, non sempre credibile, che sogna, indovina un po’, di fare lo scrittore, reso insicuro da un padre che non lo vede nemmeno, e incoraggiato dallo scrittore alcolista saggio, quello di prima. Un imbranato occhialuto che diventa muscoloso e attraente non appena lo vediamo tra le lenzuola con l’amante del padre, non dà appunto esattamente l’immagine della credibilità. Il contrasto eccessivo tra queste due versioni rendono tutto ulteriormente posticcio.
Dopo il decisamente più apprezzabile 500 giorni insieme, Marc Webb scade nel più che banale e realizza un prodotto modesto che probabilmente ambisce a essere più di quello che è. Come già altri film visti in questo festival, il regista si focalizza sul rapporto padre-figlio, mettendo in scena un genitore che non crede nel proprio erede, che non lo incoraggia e non lo stima determinandone così le insicurezze. Unico elemento degno di nota, e non necessariamente in positivo, il momento in cui l’uomo si smonta del tutto e si relativizza, quando scopre che il figlio è andato a letto con la donna di cui è innamorato, ed è il momento in cui ai suoi occhi diventa uomo. Così, al posto di un grande inarrivabile che sovrasta il piccolo eterno inadeguato, vediamo due uomini adulti, l’uno di fronte all’altro.
Non è certo un’immagine edificante ma è abbastanza triste e squallida, quella che Webb in maniera probabilmente semplicistica dà al maschio adulto, che lo vede ancora oggi misurare il suo valore e guadagnarsi la stima e il rispetto di un genitore in base a chi riesce a portarsi a letto. Questa volta è andata così, magari è un incidente di percorso, speriamo nel prossimo film.