Costruisce la sua opera intorno a quello che è uno dei suoi temi più ricorrenti, Richard Linklater, che pone quale fulcro del suo Last Flag Flying ancora una volta il tempo, sul quale riflette in modo profondo e insieme leggero a più livelli, forte di un linguaggio efficacissimo e di un cast perfetto che concorrono a trasmettere uno spirito e un’essenza coinvolgenti e contagiosi, tanto nella loro tristezza, quanto nella loro speranza. Presentato nella selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma, l’ultimo notevolissimo lavoro del cineasta americano, il cui talento e l’esperienza sono caratteristiche ormai ampiamente riconosciute, annette un’ulteriore segmento alla linea narrativa, già ampia, nella quale durante la sua carriera racconta l’evoluzione e le contraddizioni del suo paese.
Siamo abituati alle operazioni e ai salti temporali del regista americano, sia nella scelta di rappresentare ambientazioni risalenti agli scorsi decenni, come in Everybody wants some, sia in quella di riferirsi all’interno dello stesso film a più fasi della vita dei suoi personaggi, corredandole dei rispettivi contesti storici, di cui sono esempio la sua trilogia e il noto esperimento coraggioso e impegnativo di Boyhood, la cui lavorazione ha richiesto dodici anni.
In questo caso Linklater fa entrambe le cose, ambientando il film nel 2003, quando tre veterani della guerra in Vietnam si rincontrano dopo più di trent’anni in una situazione dolorosissima, la morte in Iraq del figlio di uno dei tre e la necessità di andare a recuperare e dare degna sepoltura alla sua salma, la quale diventa occasione di condivisione e pretesto di confronto e di riflessione che avviene su un piano multistratificato, dando loro modo di operare dei bilanci sia individuali che globali, rimettendo in gioco e in discussione tutto ciò che negli anni è evoluto e cresciuto, ma è anche involuto e decaduto, tanto in loro come individui, quanto nel contesto che li circonda. Così, i tre uomini si confrontano, criticandosi e confortandosi allo stesso tempo, sui loro errori, sulle loro scelte passate, sulle strategie che hanno trovato per poter affrontare condizioni più grandi di loro, date dall’essere figli di un tempo e di un paese che li ha resi schiavi di una delle tante guerre di cui è fautore e che, dopo trent’anni, ancora continua a perpetrare ai danni di individui che, pur non comprendendo e aver preso coscienza di non poterne più condividere le prese di posizione e le incoerenze, mantengono strette dentro il cuore gli ideali e i sogni che rappresenta.
E allora è potente la rappresentazione di una verità fallace, che viene sacrificata dal loro paese in favore del mantenimento della propria immagine, bugie dette per giustificare le proprie immoralità, creazioni di nemici invisibili, funzionali ad alimentare il proprio ego nel figurarsi di poterli distruggere, descrizioni di eroi senza macchia pur di non fronteggiare ciò che è scomodo, tutti aspetti caratteristici di una nazione ormai vittima dei suoi stessi raggiri e delle sue incoerenze, che si concretizzano anche nel caso specifico della storia che vediamo rappresentata, nella quale un marine morto in servizio non può essere che un eroe, anche quando in realtà è morto mentre comprava droga per suoi amici. E una delle cose più belle del film è la dimostrazione che anche i tre uomini, che si oppongono a tanta ipocrisia e rifiutano la sepoltura in pompa magna, che si lamentano di questa incapacità dell’istituzione della quale fanno parte, alla quale sono profondamente legati e ne sono mestamente delusi, sono loro stessi incapaci di essere sinceri e di gestire una situazione in cui dovrebbero rivelare una verità scomoda sia per loro che per chi avrebbe ricevuto quella verità, così da comportarsi esattamente come chi li ha tanto delusi, in quanto parte indiscussa e imprescindibile di quella realtà.
Sul piano individuale si riflette sul tempo che passa in fretta, troppo in fretta, che è inarrestabile e che quindi è giusto godersi per quanto si può nonostante l’entità e la quantità di dolori che si porta dietro. I personaggi esprimono dei concetti che apparentemente potrebbero risultare banali, ma che vengono formulati con la naturalezza e l’autenticità che appartiene al loro essere uomini comuni e rappresentativi del loro tempo e della loro nazione, quindi in definitiva appaiono genuini più che semplicistici. Sono uomini tristi e gravati dal peso di esperienze vissute, che hanno fatto quello che potevano per venirne fuori e integrarsi in un tempo che è andato più veloce rispetto alla loro capacità di elaborare quello che hanno vissuto. Ognuno di essi ha una caratterizzazione psicologica impeccabile che si delinea nella sua complessità e nelle sue sfacettature, dando un quadro umano vario e esaustivo.
Spicca un grande Steve Carrel, in grado di trasmettere in modo commovente stati d’animo contrastanti e presenti in svariate sfumature che si sovrappongono nel tempo, dalla tristezza di fondo, data da una successione di esperienze e perdite pesantissime che hanno totalmente compromesso la sua vita, al dolore presente e pervasivo della morte del figlio recentissima, alla necessità di staccare la spina e non essere troppo connesso con una sofferenza che lo devasterebbe e che quindi è mascherata da una specie di assenza e di distacco, al bisogno gigantesco e alla gratitudine relativa al beneficio tratto dalla presenza di qualcuno che lo accompagna affettivamente in questa fase atroce della sua vita. Ognuno di questi stati è comunicato da Carrel in modo incredibilmente espressivo ed efficace. Forse una delle scene migliori, se non la migliore in assoluto, è quella in cui, sul treno, i tre ricordano in modo goliardico le peripezie del periodo della guerra, le loro bravate e i bagordi vissuti nei momenti di pausa. E lui ride fino a lacrimare, e in quella risata, che toglie l’argine al flusso ingombrante che alberga dentro di lui, percepiamo tutti gli stati d’animo sopra descritti contemporaneamente. Brian Cranston è un altro bellissimo personaggio, ironico, divertente, apparentemente il più scapestrato e non certo irreprensibile, ma l’unico in grado di comunicare esplicitamente sentimenti e di esprimerli attraverso il contatto fisico, superando le distanze sia ideologiche che caratteriali che separano tre personalità diverse ma tutte necessitanti di condivisione come dell’aria. Laurence Fishburne, infine, incarna perfettamente l’esempio di un uomo che trova pace nelle sue piccole sicurezze, faticosamente costruite per necessità di sopravvivenza dopo il rientro dalla guerra.
Emblematico il finale, nel quale diventa evidente e commuove la necessità di rimanere legati ad un senso di appartenenza, ad un sogno che si sente ancora grande dentro, pur non riconoscendosi più nell’organismo ormai decadente e disilluso che quel sogno lo ha creato. E si spera che il coraggio e l’umiltà di quelle messe in discussione individuali, a poco a poco, unite all’essenza di un ideale che di per sé ha un’anima grande e un potenziale in grado di accendere milioni di cuori pulsanti, possano portare un giorno, in chissà quale nuovo segmento temporale, ad arricchire e compensare le mancanze, fornendo nuova linfa vitale per costruire una realtà che si riscatti ed esca da questo stato di disincanto, rassegnazione e sconfitta.