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Manifesto di Julian Rosefeldt: l’artista e regista riassembla per il cinema la sua videoinstallazione omonima

Dodici idee nel complesso simili e coerenti tra loro, dai toni più surreali e comici ai più tragici e funesti, affidati alla maschera Cate Blanchett che muta forma nell’attualità. Manifesto di Julian Rosefeldt è un’esplorazione di visioni del reale, partendo dal quotidiano, per analizzare lo stato dell’arte

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Manifesto: “Programma di un movimento politico, artistico, culturale, diffuso per mezzo della stampa”

Berlino, 12 giorni, 12 personaggi,

13 manifesti, 95 minuti.

L’artista e regista di Monaco Julian Rosefeldt, classe 1965, con Manifesto riassembla per il cinema la sua videoinstallazione omonima commissionata nel 2015 dall’Australian Centre for the Moving Image ed esposta tra le altre sedi al Park Avenue Armony di New York. Film scritto, prodotto e diretto da Rosefeldt, con un budget che non supera un milione di dollari, frutto di una cooperazione tedesco australiana, trova la sua linfa vitale nella fascinazione improvvisa che coglie J. R. durante una lettura “casuale” di Manifesti. I figli di correnti artistiche tra le più svariate selezionati tra una sessantina di letture sono 12. Dodici idee nel complesso simili e coerenti tra loro (quando l’obbiettivo era uccidere i padri per determinare ogni volta qualcosa di “completamente nuovo”) dai toni più surreali e comici ai più tragici e funesti, affidati alla maschera Cate Blanchett che muta forma nell’attualità (da homeless a broker, da lavoratrice in un inceneritore a CEO, da punk a scienziata, da oratrice funebre a burattinaia e coreografa, da conduttrice/reporter a insegnate) per dare corpo alle parole contestatrici di ieri. Con toni ricercatamente altalenanti, a volte lagnosi e cantilenanti come la recita di un rosario, altre didascalici per puerperi a lezione, altre in oratoria da pulpito, altre viziosi e noiosetti a seconda della forma vestita.

La Forma in Manifesto. One and three chairs di Joseph Kosuth è un’installazione del 1965 che sembra trarre piena ispirazione dall’ontologia platonica (tre tipi di letto, La Repubblica) in cui nel mondo delle idee si situano le forme del pensiero, i modelli delle cose della realtà, le quali non sono che copie degli archetipi permanenti. L’impronta di Kosuth, considerato tra i maggiori esponenti dell’arte concettuale, e naturalmente l’archetipo platonico sono l’orma che segue Rosefeldt. Per Kosuth la sedia è la definizione della sedia derivata dal dizionario, la sedia reale e la sua riproduzione fotografica a grandezza naturale. Per Rosefeldt i Manifesti sono la riproduzione digitale di un atto-elencazione vocalica ed interpretativa dei contenuti, l’elencazione vocalica ed interpretativa dei contenuti e i contenuti del manifesto letti da Blanchett. L’individuazione del concetto di sedia come quello di Manifesto oltre la logica platonica di condanna della pittura dell’oggetto in quanto rappresentazione che si discosta dalla realtà è dentro una visione di ricerca di ogni implicazione di quel concetto per Kosuth (che poi diventerà una definizione dell’artista su cosa è l’arte sempre più linguistica) e di “negazione” della pittura per Duchamp:“A me interessavano le idee non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente. La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe avere a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva” (altro grande padre del concettuale).

Un’esplorazione di visioni del reale partendo dal quotidiano per analizzare lo stato dell’arte come già Leos Carax tenta e realizza con i nove personaggi del suo metacinematografico e inesplicabile Holy Motors. Blanchett come Lavant (attore-feticcio di Carax). Blanchett meno surreale di Lavant, che importa? Le 12 location di Rosefeldt parlano chiaro, esplicano com’era l’arte e il tredicesimo meta-manifesto si aggiunga per dichiarare altrettanto chiaramente lo stato dell’arte, del suo pubblico e critica, oggi.

A proposito di pubblico e critica il MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea de La Sapienza ha inaugurato il 18 ottobre “Contestare l’ovvio”. Una mostra in cui come scrive l’ufficio stampa dell’evento: “contestare l’ovvietà di ciò che è già dato, infatti, è l’azione propria del filosofare: pensare cioè in maniera alternativa allo status quo. Parimenti, l’artista è colui che, nel pensare il suo lavoro, crea altre visioni, ridisegnando il comune rapporto con l’immagine… Le opere in mostra non hanno la presunzione di instaurare un legame con un unico tema: sono piuttosto, in modo semplice e diretto, una messa in scena del titolo stesso, Contestare l’ovvio, denominatore comune col quale fare i conti. Sappiamo quanto ogni interpretazione sia una traduzione, un “tradire”, ma è proprio tradendo che si dà vita ad un Flusso, ad una catena di traduzioni nel tempo ed all’incontro con il pubblico”.

Perché il tredicesimo Manifesto sembra prevenire le possibilità di quel Flusso che l’alano nero nell’incipit di Holy Motors e i leoni di Davide Rivalta disposti sul pronao della Galleria Nazionale a Roma, invece, sfidano? “Nella visione ravvicinata, infatti, la figura, senza per questo dissolversi, cede il passo al gesto formante, all’evidenza enigmatica della somiglianza e si offre come magistrale risultato di un Processo in Atto (Cristina Collu, direttrice della Galleria Nazionale).

  • Anno: 2017
  • Durata: 94'
  • Distribuzione: I Wonder Pictures
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Austria, Germania
  • Regia: Julian Rosefeldt
  • Data di uscita: 23-October-2017

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