Anne Wiazemsky racconta Jean-Luc Godard.
Michel Hazanavicius racconta Anne Wiazemsky che racconta Jean-Luc Godard (il film è tratto dalla biografia dell’attrice, Un an après, e sceneggiato dallo stesso Hazanavicinius).
La recensione di questo film andrebbe letta – lo scrivente si permette di suggerire – ascoltando in sottofondo la canzoncina – filastrocca, irriverente e ossessiva, che contrappuntava molti passaggi de La chinoise, ossia Mao Mao di Gérad Guégan e Gérad Hugé, giacché Il mio Godard immortala, tra le altre cose, alcuni momenti della realizzazione della celebre pellicola, che poi si rivelò decisiva, laddove costituì un importante spartiacque nella carriera del regista.
«L’imperialismo detta legge ovunque/la rivoluzione non è un pranzo di gala/la bomba A è una tigre di carta/le masse sono i veri eroi/È il libretto rosso/a far sì che tutto si muova.»
Godard, quantunque avvertisse più che mai l’esigenza di riformare completamente la grammatica cinematografica, sinceramente mosso dall’intento di parlare alle masse, per scuoterle, per provocare in loro uno slancio rivoluzionario, non riuscì, allora, a svincolarsi da un’ironia (purtroppo non ancora impietosa) che gli impediva di credere fino in fondo non solo alla possibilità del rovesciamento e della correzione della realtà, ma, cosa ancor più significativa, all’eventualità di un cinema davvero ‘altro’ da praticare. Un cinema che – l’adagio era più o meno questo – non continuasse a riprodurre incessantemente i rapporti di produzione esistenti, non costituisse un diversivo per intrattenere i rampolli dell’alta borghesia, ma si ponesse in maniera realmente antagonista, sfidando, fino a fuoriuscirne, il circuito convenzionale. La chinoise fu un disastro sotto tutti i punti di vista: la critica lo stroncò, definendolo un divertissement per ragazzi agiati e annoiati, e il pubblico disertò il film, probabilmente spiazzato dalla non poca anti convenzionalità della messa in scena. Che fare, dunque? Piegarsi al gusto degli spettatori, della critica allineata, o, invece, coerentemente con il proprio percorso evolutivo, spiccare un salto nel buio, per tentare davvero e coraggiosamente di balbettare il futuro, di “dire la cosa attraverso la cosa stessa”, di parlare cioè alla classe operaia con la voce del popolo (un cinema, insomma, fatto dal popolo per il popolo)?
Non per eroismo, ma per onestà intellettuale, Jean-Luc Godard resistette alla tentazione dell’estetizzazione della politica in favore della politicizzazione dell’arte, seguendo il celebre adagio contenuto ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin. Bisognava scegliere: continuare con i ‘film politici’ (come tanti suoi colleghi furbetti fecero, primo fra tutti Bernardo Bertolucci) oppure, finalmente, provare a realizzare “film fatti politicamente” (assistiamo, tra l’altro, ad un vivace alterco proprio tra il regista di Novecento e quello di Fino all’ultimo respiro), rinunciando anche all’odiosa, ma da tutti ambita, aura di regista-capocomico. Era necessario spossessarsi del potere per acquisire la potenza, che è sempre collettiva, comunitaria, per cominciare a concepire un modo completamente nuovo di approcciarsi al cinema.
Il passo successivo fu l’incontro con Jean-Pierre Gorin, il quale, passato per le lezioni di Louis Althusser, Michel Foucault e Jacques Lacan, influenzò non poco l’opera a venire di Godard: fondarono insieme il celebre (non poi tanto, a dire il vero) Gruppo Dziga Vertov.
Hazanavicius, quantunque si sia ben guardato dall’approfondire tali, decisive, questioni da una prospettiva intellettuale (sebbene almeno un accenno in tal senso sarebbe stato opportuno), dà corpo a un periodo di crisi e transizione di Godard, alternando la ricognizione della vita pubblica-artistica con quella privata-sentimentale. Il 68’ non rimane sullo sfondo, anche se è rappresentato attraverso un’iconografia consunta, che non aggiunge nulla, piuttosto strizza l’occhio allo spettatore, reiterando una narrazione già ampiamente metabolizzata. Un po’ più efficace invece è la messa in scena della relazione tra Godard e Anne Wiazemsky, in riferimento alla progressiva penetrazione al suo interno della sfera politica, che ne minò le fondamenta, provocandone la crisi e, infine, la cessazione. D’altronde non era immaginabile che l’ortodossia marxista-leninista non sfondasse gli steccati della vita privata, esigendo un ruolo significativo, nella misura in cui nulla sfugge ad una visione che tende a ridurre sistematicamente le contraddizioni (sebbene ve ne fossero, e ve ne sono, di principali e secondarie, come poi fu egregiamente espresso dallo stesso Godard nel bellissimo Lotte in Italia, film inizialmente commissionato dalla RAI, in seguito rifiutato e successivamente realizzato con l’ausilio di produttori privati).
Chi scrive, senza girarci troppo intorno, ha chiesto al regista di rivelargli quale dei due Godard (pre e post La cinese) preferisca. Michel Hazanavicius, dopo aver precisato che ha cercato in tutti i modi di non far trapelare una preferenza in tal senso, ha affermato, in maniera provocatoria, che non proporrebbe mai ai propri di figli di guardare un film del Gruppo Dziga Vertov, magari davanti ad una pizza e una coca cola. Il questuante invece – e non è una provocazione – amerebbe non poco passare una sera con la propria figlia seguendo le tappe della trasformazione di Paola Taviani, protagonista di Lotte in Italia, giovane militante di un movimento politico extraparlamentare. La visione di una tale pellicola permetterebbe di fare esperienza di un’immagine altra (e di un discorso altro) che, probabilmente, potrebbe interrompere (almeno momentaneamente) il dilagare dell’iconografia dello spettacolo diffuso cui siamo quotidianamente esposti, fornendo, chi scrive ne è persuaso, una vitale boccata di ossigeno.
Si badi bene che saremmo pronti per il ricovero se ritenessimo, in balia di un ridicolo fondamentalismo, che il cinema non fatto politicamente non abbia cittadinanza, né consistenza ontologica (in questo senso accogliamo la sincera lacerazione interiore del giovane Louis Garrel, il quale, sebbene estimatore accanito del cinema di Godard, ci ha confidato che non può, sentendosi quasi in dovere di giustificarsi, non amare anche Truffaut e gli altri registi che non seguirono le orme dell’autore di Due o tre cose che so di lei): senza dubbio ci sono anche altri grandissimi cineasti (pochissimi, in verità) che con sguardo ‘trasfigurante’ sono riusciti nella titanica impresa di non farsi risucchiare dal ‘buco nero’ della rappresentazione, superandola, magnificamente e miracolosamente. Godard, nel 1967, scelse la sua strada, dura e solitaria, rinunciando alla gloria, ai riflettori, in nome di un’onestà intellettuale che non poteva essere in alcun modo disattesa, pena la perdita della dignità (la quale, al netto delle svariate vicende che contrassegnano l’esistenza, è l’unica cosa che alla fine valga la pena salvare).
Il mio Godard, però, ci teniamo però a sottolinearlo, non profana la figura del più grande regista vivente, piuttosto, scientemente, sceglie un compromesso accettabile per non scontentare nessuno: un taglio, una prospettiva in cui operare una sintesi di tutti i Godard possibili. Chi scrive avrebbe apprezzato un maggior approfondimento, una presa di posizione più netta, quantunque comprenda la difficoltà di realizzare un film che, nato e pensato all’interno del circuito convenzionale non poteva mancare l’obiettivo di essere anche consumabile. Purtroppo ne esce fuori un Godard incerto, taciturno, ossessivo, anche un po’ maldestro, e di ciò, è chiaro, non possiamo che dolerci.