Il titolo originale, Ce qui nous lie, ovvero, «Quello che ci lega» esprime più compiutamente dell’adattamento italiano Ritorno in Borgogna, a sua volta ricalcato su quello anglofono Back to Burgundy, il significato profondo dell’opera e il suo intendimento morale. In seguito alla morte paterna, dopo un decennio d’assenza Jean torna nella dimora avita nella regione francese centrorientale, insieme alla sorella Juliette e al fratello Jèrémie. Forzati dalla cattive condizioni di salute del padre, i tre devono superare le idiosincrasie e le incomprensioni e ricostruire l’unità familiare.
Paesaggi fotografati come in un dépliant turistico; un excursus non solo sulle bellezze naturali e architettoniche della regione, ma anche un elogio alla produzione vinicola locale, fra più apprezzate e diffuse al mondo; un invito a riscoprire i saldi valori familiari, minacciati o dalla morte o dalla dispersione cui va incontro il nucleo familiare; infine, un invito, in tempi di crisi industriali e di primato dell’economia finanziaria, a riscoprire la bellezza e le potenzialità dell’agricoltura (si rammenti che la Francia è il primo produttore agricolo europeo e il secondo vinicolo dopo l’Italia).
Il film sconta notevoli difetti strutturali che ne minano le fondamenta: ad esempio, la morte del padre vedovo (nulla più di un pretesto, di un escamotage, o di un McGuffin, avrebbe detto Hitchcock) costringe, come si diceva, i tre fratelli a trasferirsi nell’ormai ex azienda paterna e a badare alla vigna appena ereditata. Jean è appena tornato dall’Australia, dove vive una situazione di crisi con la madre dei suoi figli; Jèrémie si trova nell’imbarazzo per aver sposato la figlia di un viticoltore più importante; Juliette, infine, sente non essere abbastanza severa coi fratelli e di non saper far valere le proprie opinioni. La svolta, che pone i personaggi dinanzi alla decisione capitale dell’opera, il vero punto nodale del film, giunge quando il loro notaio li informa che il solo modo per pagare i debiti lasciati dall’azienda paterna è la vendita della stessa. I protagonisti devono ora scegliere se tagliare definitivamente i ponti con l’infanzia e i legami familiari, o recuperare invece quel rapporto con la terra genitrice e le tradizione che si porta dietro. Ebbene, tale problema, che dovrebbe costituire il cardine attorno al quale ruota la trama e si definisce la psicologia dei personaggi, viene risolto, piuttosto sbrigativamente, con la facile battuta finale, che affossa definitivamente un film tanto leggero e fatuo da riuscire inconsistente. Poco decifrabile risulta anche la decisione, operata evidentemente in sede di montaggio, se mostrare il volto del padre sul letto morte: forse per non incupire eccessivamente lo spettatore, il viso dell’uomo non compare mai in scena.
Per il resto, non si va oltre degustazioni di uve maturate al sole; analessi che mostrano i tre fratelli bambini osservare il passaggio delle stagioni sul placido paesaggio borgognone; un ambiente quasi per nulla urbanizzato, quindi antitetico a quello cittadino; la riscoperta dei valori d’una volta, coi protagonisti sempre più coinvolti nella gestione della vigna; infine, le immancabili degustazioni di vini come in ogni film francese che si rispetti.
La morale dell’opera, in linea con l’ambientalismo e il salutismo coevi, sembra dunque affermare che la cosa migliore sia riscoprire le bistrattate origini familiari e, per usare una metafora, tornare all’ovile; anzi, in questo caso alla vigna. Per pubblico straniero, specialmente anglosassone, Ritorno in Borgogna di Cédric Klapisch si mostra anche e soprattutto come un inno al pittoresco e al caratteristico, senza mai voler indagare la natura profonda dei luoghi e mantenendosi invece sul livello della storia gradevole e a lieto fine, condita di bei paesaggi, assurti qui al rango di protagonisti indiscussi. A proposito di pittoresco, mostrare un attrice (la Girardot) vendemmiare scalza in una tinozza in un film del 2017 significa non possedere il minimo senso del ridicolo e credere che persino il pubblico ne sia immune. È questo un modo di raccontare l’Europa romanza (la Francia, la Spagna e specie il nostro Meridione), come cartoline da vendere agli stranieri, i quali evidentemente preferiscono immaginare luoghi esistenti nella loro fantasia invece di conoscerli realmente; e, quand’anche lo fanno, vi soprappongo il filtro della propria immaginazione che consente loro di vedere solo ciò che la loro fantasia, l’idea di quei luoghi che da generazioni possiedono, ha plasmato in loro: la realtà a misura di Baedeker, insomma; o di guida Michelin, se preferite.