Connect with us

Eventi

Un fiore (secco) di cactus. Quando il tempo, a teatro, è siccitoso

Finto è il brio, come finto è il fiore e, più che spinosa, la pianta è secca: lo spettacolo non è insulso perché in fondo è stato ben eseguito, piuttosto è siccitoso come da tempo le stagioni teatrali romane estive e non

Pubblicato

il

Fiore di cactus in scena al Teatro della Cometa (Via del Teatro Marcello, 4 Roma) fino al 22 ottobre.

Queste le coordinate per decidere se andare o meno a vedere Fiore di cactus.

Di seguito la mia recensione per non consigliare questa pièce: quando la critica non ignora e, ritenendolo un dovere, in un certo senso si “scomoda” a spiegare un prodotto non encomiabile, lo scambio dialogico permane. Auspico che ciò sia ben chiaro a chi leggerà, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Le mie parole non sono frutto della personale netta preferenza (…in tal caso abbastanza evidente!)  dell’omonimo film diretto nel 1969 da Gene Saks, con Walter Matthau e Ingrid Bergman, nella solita diatriba tra le versioni cinematografiche o teatrali di capolavori di scrittura “spettacolare”, ma dell’indagine che da dentro, in quanto attrice teatrale e drammaturga, sono in grado di compiere spero in manierasufficientemente approfondita onde spiegare le mie posizioni a chi avrà la bontà di leggermi. Principio con il triste ricordo, in ambito teatrale, di un’estate romana ormai finita, segnata da un attendibilissimo “flop” con annesso ecomostro ancora imperante in un’area archeologica importantissima e delicatissima quale il Colle Palatino di fronte al Colosseo.

Nerone (rabbrividisco all’ipotesi di una lettura all’inglese Ner-one), un’opera teatrale annunciata come rock, incentivata (aggiungo io forse sull’onda del tutto esaurito al Sistina di Jesus Christ Superstar) dal ministero dei Beni Culturali, prevedeva repliche fino a settembre inoltrato per ospitare tremila spettatori. I “giochi”del Divo Nerone sono però terminati il 19 giugno, stroncati, senza remora alcuna, non soltanto dalla critica, ma inaspettatamente dal pubblico: l’organizzatore Casella ha mandato alla forca mediatica un imperatore “2.0”, un kolossal trash, un indefinibile, citando Boris Sollazzo, autore di un magistrale articolo sulla versione on-line di Rolling Stone, “carrozzone fracassone”, “tutto fuorché rock”. «Tutti erano pronti a farsi piacere lo show: era costato tanta fatica e forza di volontà, che pochi avrebbero ammesso di aver sbagliato a rimanere. Purtroppo pochi, alla fine, non se ne sono pentiti.  […] In certi momenti, tipo quello di “I’m Superstar” un po’ camp, in altri (quasi sempre) un incrocio tra Fivelandia e una parodia dei peggiori Pooh, con momenti folk incomprensibili e tanto, troppo trash. Non si va meglio sul piano narrativo: le caratterizzazioni dei personaggi sono molto imbarazzanti, i dialoghi fanno rimpiangere il mitico The Lady di Lory Del Santo, il peggio però arriva con le canzoni, musicate male e, appunto, con testi anche peggiori. Se non ci credete, vi offriamo un saggio delle migliori rime raccolte in quasi 150 minuti di show. “Palatino-Pecorino”, un ardito e colto “Cupido-libido”, “sei un caprone sarai Nerone”, e un geniale “via gli scudi tutti nudi”. E sono tra le migliori, attenzione. Un pugno nell’occhio questo sforzo di scimmiottare Notre Dame de Paris – David Zard, perdonali, perché non sanno quel che fanno – e le repliche meno riuscite di Mamma Mia, con un Nerone fricchettone che si crede Gesù e si scopre Charles Manson, una Poppea popputa e una Agrippina che parla come Virginia Raggi, “il tempo sta cambiando” compreso. Intendiamoci, poco da dire su attori-cantanti e ballerini: tutti bravi, ma costretti appunto a declamare parole imbarazzanti ed eseguire coreografie che già negli anni ’80 erano vecchie e che fanno sembrare Fame uno spettacolo degli Stomp.[…] Di sicuro quello che gli amici di Nerone gli dicono alla fine “la tua arte non è morta perché non è mai esistita” sembra la migliore (auto)recensione possibile.

Bene. O meglio male, e molto, perché, complice l’estate che nella Capitale sembra non terminare mai, (d’altronde sono i giorni in cui trionfano le ottobrate romane) la “confezione” proposta da Fiore di Cactus, diretto da Piergiorgio Piccoli e Aristide Genovese, è di poco distante dal più riuscito modello di animazione per “villaggio vacanze”, con un’impalcatura eretta su numerosi brani musicali da ballare, presentati nella loro versione originale (mi chiedo quindi di cosa si sia occupato esattamente il curatore Stefano De Meo) e tanta gioia nel cuore e festa per turisti (gli spettatori) che vogliono divertirsi ad ogni costo facendo le follie consentite soltanto quando i piedi, belli o brutti, possono non calzare scarpe chiuse e i centimetri di stoffa sulla pelle sempre più rossonera di bruciatura si accorciano, per il gran caldo.

Il testo teatrale Fiore di Cactus, nato dalla penna di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy, merita di non esser ridotto ad una “deliziosa commedia di situazioni spassose e divertenti malintesi”, come viene invece precisato nelle note di regia. Della maestria di quei drammaturghi, fondata sui binomi di brio e leggerezza, gentilezza e serietà, si perde ogni traccia sin dalla prima scena, quando nella “cameretta” di Tonia (nome riadattato, di chiara ed urticante ascendenza friulano-veneta come la provenienza di oltre la metà della compagnia recitante), donna alta e dalla struttura fisica troppo robusta per nulla adatta alla figurina deliziosa che ci immagina di vedere, cala l’ideale sipario di una commedia dal classico intreccio amoroso in grado di vivere soltanto di amore, aria pulita, humour e freschezza. Inoltre l’arredamento della sua stanzetta piena di dischi in vinile sulle pareti, unitamente alla locandina del film Il laureato, più che un omaggio a quest’ultimo, appare un controsenso. Nella pellicola, come nel copione originale, la ragazza di nome Toni Simmons, interpretata da Goldie Hawn, che vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista, lavora in un negozio di musica, mentre nella suddetta versione teatrale è commessa in un’erboristeria, logica spiegazione del perché abbia provato a suicidarsi, senza riuscirci, tracannando una strana mistura di radicchio e banana. Tuttavia, cosa a dir poco stramba, l’etica professionale le permetterà di adorare un prestigioso presente, come recita il bigliettino “da parte di Giuliano”, per poi regalarlo alla protagonista Stefania. Mi riferisco ad una pelliccia che il dentista suo amante, ma, a detta di quest’ultimo, ammogliato e con tre figli, le dona per addolcir la pillola dell’ennesima bugia con cui l’ha ingannata. Il suddetto capo d’abbigliamento, senza alcun motivo, in scena, è un bolerino color bordeaux, a metà strada tra un soffice tappeto da bagno e un boa da drag queen. Da tempo si producono pellicce finte…perché non usarle? Perché far dire alla coprotagonista che si tratta di un regalo meraviglioso, come prevede il copione, mentre tutti gli spettatori  in sala ne hanno provato imbarazzo e disgusto con il risultato di considerare Tonia una povera sciocca? Priva di senso, inoltre l’entrata in scena, dalla finestra, del salvatore della protagonista: poco credibile come scrittore squattrinato, con i suoi pettorali palestrati bene in vista e le Sneakers ai piedi. Di lui ho davvero guardato soltanto le scarpe: il ruolo di disturbatore dei “piccioncini” prima della catastrofe dovrebbe sostanziarsi di affetto sincero mascherato dalle verifiche sulle condizioni di salute di Toni, ma sin da subito si comprende come andrà a finire. Igor, più che uno spiantato letterato, è un tipico ragazzo italico dei nostri giorni, che va dal barber shop, veste con abiti di marca, ha  la fissa dei muscoli ergo ci prova subito con chiunque sia “donna” .

La graziosità, la leggerezza e la spensieratezza del testo teatrale toccano momenti a dir poco trash, con altri tre personaggi, due femminili ed uno maschile fuori luogo, non tanto in relazione alla necessità d’esistere (sono previsti dal copione originale), quanto alla penosa presenza scenica, spesso volgare, fine a se stessa, vista e rivista all’ennesima potenza, pertanto incomprensibile ed ingiustificata. Parto da Pina, una cliente del dentista dalle forme generosamente maggiorate, ottenute in occasione dello spettacolo, gonfiando vistosamente un abito con l’effetto di far lievitare l’attrice che la interpreta come l’omino della Michelin, esagerata nel portare a spasso, su tacchi altissimi, seni e glutei finti, sempre in cerca di tigresca soddisfazione sessuale, da carpire in primis dal tenebroso dottor Giuliano. A seguire una ragazzetta stile velina, olgettina, letterina ecc… amante dell’amico di Giuliano, cattivo pagatore delle cure odontoiatriche, responsabile dell’ira della segretaria Stefania, la quale appena si è mossa per ballare su ritmi da discoteca in un microabito rivestito di purpuree pailletes e talvolta e ha proferito parola mi ha fatto pentire di esser rimasta in sala fino alla fine. Cosa dire poi delle scene ambientate nel locale in cui Giuliano tenta di risolvere i problemi nati dalle sue bugie dette a Tonia, dei gesti dilatati e vuoti e innaturali del barman che, in camicia aperta ed ariosa a mo’ di ballerino del Bagaglino, impiega tutto il tempo ad asciugare i bicchieri dei clienti, sempre gli stessi, posizionando con un movimento ampio e vistoso lo strofinaccio sulla sua spalla, per poi, in un assurdo risveglio delle sue altre funzioni vitali, urlare allupato il nome Pina, offrendo dono al pubblico di una break dance?

Perché, mi domando, sottoporre a tale tortura gli spettatori? La risposta mi è arrivata direttamente a teatro, dal coinvolgimento generale delle signore freneticamente danzanti nelle loro poltrone, in piena esplosione ormonale,  stupite dai risvolti della trama (segno che l’esistenza nel loro scibile del film Fiore di cactus era un miraggio come l’acqua nel deserto) e dai rumori degli  annoiati uomini ottuagenari assisi vicino a me, russanti beatamente quando il volume delle musiche aumentava ecc…

La prima dello spettacolo è stata, dunque, favolosa: tutti gli spettatori hanno dato prova di essersi divertiti ed addirittura emozionati (desidero ignorarne le più svariate ragioni), perché in fondo nessuno è stato “sorpreso” negativamente, sconvolto o deluso: si è servito su un piatto d’argento quanto da anni si propone come modello spettacolare, di stampo soprattutto turistico-televisivo, vicino al cinepanettone, e si è fatto vedere quanto già ci si aspettava di trovare sul palco indipendentemente dalla trama e dal testo e dal loro connotarsi come un capolavoro mondiale dalla drammaturgia di ferro.

Pertanto sono state apprezzate, passando inosservate, le solite intromissioni di battute riecheggianti, come in un programma tv estivo su Rete 4, i versi  delle canzoni di Donatella Rettore, (ormai in odore di richiesta di copywright), le allitterazioni tra “Cincotti” (cognome in questa versione della protagonista) e “Cingolati” per rimarcare la pesantezza del carattere e la figura immobile e ben poco attraente della segretaria del dentista, le citazioni dei nomi di parrucchieri famosi da cui si reca Pena, tra cui il celeberrimo Michel, e infine, le frasi strappalacrime come “l’essenza è dentro, anche se la busta si è rotta”, riferita ad un dialogo tra Tonia e Stefania intenta a fingere, in erboristeria, di esser la moglie di Giuliano.

Malgrado il disastro sopra descritto, non posso affermare che gli attori abbiano mal recitato: ognuno di loro si è attenuto, giustamente esagerandoli, ai cliché che funzionano alla perfezione e ricevono elogi, almeno in area romana.

Tutti gli interpreti si sono dimostrati capaci di eseguire perfettamente le richieste di una regia che ha preso in prestito un meraviglioso ed inattaccabile testo teatrale per tradirlo, mandarlo in frantumi e riproporlo fresco ed in apparenza innovato a suon di ottima musica dance dei mitici anni ’70-’80 che, si sa, fa risvegliare anche le mummie. In verità, quest’ultimo elemento contribuisce a depistare, in merito al periodo storico di svolgimento della vicenda, inducendoci a chiederci perché ad alcuni fatti non corrispondano le giuste conseguenze, come suggerirebbero i tempi contemporanei di ambientazione della pièce vista al Teatro della Cometa: dalla locandina del film Il laureato nella cameretta di Tonia alla moda anni Duemila dei costumi di scena di tutti i personaggi non deduciamo niente di niente, nemmeno a proposito, di argomenti come il divorzio, la separazione coniugale. In più l’assenza di cellulari per comunicare appare alquanto strana. Sarebbe stato meglio e meno arzigogolato lasciare le cose come stavano sulla carta, farle risalire al 1963, anno più anno, anno meno.

Nello spettacolo vi sono stati alcuni momenti di estremo imbarazzo come la sequenza infinita di ballo, la definisco tale, per gentilezza, nel locale dove si incontrano le varie coppie: si vedono gli attori muoversi, scatenandosi per finta senza che le loro azioni abbiano un fine drammaturgico, o ancora quella relativa al passo di danza inventato da Stefania, dopo essersi liberata della sua corazza di donna racchia, chiamato “del cavadenti” .

D’altronde, sempre nelle note di regia suona quasi come un’excusatio non petita e quindi un’accusatio manifesta la seguente precisazione relativa alla pièce :”Uno straordinario testo che è diventato ormai un classico della commedia “brillante”, un filone teatrale che non è assolutamente da considerarsi “minore”, in quanto ha modalità e criteri di realizzazione spesso complicatissimi. Questo tipo di teatro non ha solo la fortuna di avere grande presa sul pubblico, ma spesso riesce a raccontare, senza darlo troppo a vedere, grandi verità sulla vita, sull’amore, sul dolore e su tutte le debolezze umane”. 

Quasi si mettono le mani in avanti per non cadere, per evitare che il pubblico rifiuti di sceglier di vedere un prodotto brillante, ovvero mestamente allegro e più adatto agli intellettuali alla francese, in favore di uno spettacolo comico tout court, cioè più divertente e meno impegnativo, più rilassante, in questi tempi neri di crisi in cui occorre ridere, e sguaiatamente, per dimenticare.

Circenses, circenses e ancora circenses: Fiore di cactus condivide con il Nerone estivo lo stesso obiettivo e purtroppo accumula errori su errori di regia, imponendo ad una professionista e autentica showgirl come Benedicta Boccoli un’interpretazione soprattutto fisica, molto confusa ed incongrua del ruolo affidatole. Quando indossa il camice, infatti, Stefania è dritta come un fuso, la sua voce è gelida, la sua precisione risulta sorprendente ed urticante, mentre, smessi i panni della segretaria, nella vita privata, con in testa un cappellaccio, avvolta in un cappotto di tweed, si ingobbisce quasi somigliando a Franca Valeri: una voce tremolante da vecchina suona davvero estranea al suo  carattere tutto d’un pezzo previsto dal copione. Poi il risveglio di primavera di una fanciulla in fiore avviene in tre tempi: con il camice, Benedicta Boccoli balla alla perfezione sulle note di Born to be alive, ricevendo numerosi applausi in scena, poi, in borghese, al posto dell’ordinato chignon, in un abito nero, i suoi capelli sono raccolti in una coda ed infine, quando rientra nello studio per recuperare gli effetti personali ed il cactus, la sua bionda chioma è sciolta e i capelli danzano dolcemente luminescenti come in una réclame televisiva di uno shampoo.

Quanto a Maximilian Nisi, nulla da dire, benché il modo di affrontare le continue bugie che inventa, responsabili del groviglio della sua vita privata, sia talmente nevrotico ed esagitato da risultare finto: alla fine della pièce non sembra aver mai amato Tonia, né essersi invaghito davvero  di Stefania. Somiglia, contrariamente al personaggio della pièce, ad un uomo in carriera degli anni Duemila, bastante a se stesso che non sa più conoscere cos’è l’amor.

Anche il cactus vive ben poco in questa versione e il fiore del titolo, comparendo alla fine in una triste ed evidente vita di plastica, sembra quasi superfluo: cosa c’entra quella pianta con uno spettacolo più simile al genere musical costruito ad actorem, per esaltarne le rispettive abilità, pensato per soddisfare un pubblico che non va più a teatro perché non ne sente il bisogno?

Finto è il brio, come finto è il fiore e, più che spinosa, la pianta è secca: lo spettacolo non è insulso perché in fondo è stato ben eseguito, piuttosto è siccitoso come da tempo le stagioni teatrali romane estive e non.