Ciò che è più sorprendente e difficilmente descrivibile di Mrs. Fang, ultimo lavoro di Wang Bing premiato al Festival di Locarno con il Pardo d’Oro lo scorso agosto, è che, pur trascorsi diversi giorni dalla visione, volti a prendersi una commisurata porzione di tempo per digerirlo e metabolizzarlo, il tumulto di sensazioni evocate è ancora così intenso e indefinito che non si sa se venirne fuori con la solita immutata stima profonda per questo grande cineasta finalmente riconosciuto con un massimo premio, o se lo si vorrebbe avere davanti per potergli urlare contro. Probabilmente entrambe le cose.
Nel bene e nel male, Wang Bing possiede sempre l’enorme potere intrinseco di scaraventare lo spettatore dentro la realtà che ritrae, determinando un’immedesimazione talmente potente da stravolgerlo. E questo sa farlo qualsiasi siano i vissuti emotivi nei quali ci si immedesima, come è evidente in tutti i suoi film, ma quando si tratta di rappresentare o documentare condizioni manifestamente precarie di particolare dolore e frustrazione, lo fa in modo così penetrante da arrivare ad essere contemporaneamente commovente e disturbante.
Così, per esempio in Feng Ai o in The ditch, il regista cinese pone il suo sguardo assoluto e solenne su delle realtà penosissime come quella di un manicomio e quella della deportazione nel Deserto del Gobi di un gruppo di uomini portati alla fame e pur non facendo alcuno sconto sul mostrare le condizioni più turpi, il dolore che ci propone è sempre strettamente correlato a ciò che accade nella sua scena.
Nel caso di Mrs. Fang ciò che disturba non è soltanto la frustrazione o il dolore che vediamo, non è solo davanti all’identificazione nella situazione che viene descritta che si inorridisce. Nonostante l’amore incondizionato per questo grande autore e il fatto che comunque Mrs. Fang appaia come un lavoro di fortissimo impatto e di grandissima qualità, caratterizzato dalla potenza e dall’assoluta autenticità del suo consueto sguardo profondo e pervasivo, Wang Bing si pone in una posizione tale da essere in qualche modo complice o quantomeno partecipe, parte integrante di ciò che disturba.
Spieghiamoci meglio. Il film documenta gli ultimi dieci giorni della vita di Mrs. Fang, una donna di 67 anni malata di Alzheimer, la sua agonia, il suo ultimissimo vero e proprio degrado, fino alla morte. Quel momento di una vita talmente intimo e personale che chiunque dovrebbe poter scegliere in che condizioni arrivarci e soprattutto come gestirle, o almeno essere protetto quando non può farlo. Mrs. Fang non è più in grado di parlare, di comunicare in alcun modo, sta ferma in un letto, muove solo le braccia ogni tanto e gli occhi cambiando espressione del viso in modo sempre percettibile per quanto si tratti di un viso ormai in agonia, con gli occhi sbarrati e la bocca sempre aperta per poter raccogliere le ultime molecole di ossigeno attraverso una respirazione sempre più flebile e inefficace. È un incubo soltanto guardarla.
Wang Bing indugia su quel viso con lunghi e strettissimi primi piani che non lasciano alcuno spazio alla minima intimità, dando modo allo spettatore di sentirsi prigioniero di quel corpo insieme a lei, di percepire tutta la claustrofobia e l’impotenza che deve essere insita nel sentire di qualcuno che sta morendo e non può più muoversi, non può parlare, non può lamentarsi, non può chiedere aiuto o piangere, non può più chiedere o dare affetto e non può mandare via tutti quanti perché magari ha voglia di vivere qualche momento sola con sé stessa. Non può. E non sai se è più bravo a farti percepire quella claustrofobia e a regalarti dei momenti di così assoluta verità o se quella claustrofobia è lui stesso a favorirla e accentuarla, riprendendo quegli occhi e quel corpo che probabilmente non lo hanno mai scelto e che non possono opporsi nemmeno se volessero.
La donna si trova in una stanza con un televisore sempre acceso, all’interno della quale sostano e si alternano costantemente circa una decina di parenti, tra i due figli, nipoti, cognati e amici di famiglia, in visita al suo capezzale per “accompagnarla” sino alla fine.
Ciò che è inevitabile osservare, è l’atteggiamento di queste persone nei confronti della congiunta morente. Chiacchierano tra loro e rumoreggiano a qualsiasi ora ma soprattutto parlano di lei come se non fosse lì o peggio, come se fosse già morta. Li ascoltiamo parlare delle sue piaghe da decubito, del suo funerale, della sepoltura, delle sue vicende matrimoniali, di quanto manca, del fatto che non riesce più a deglutire o che il collo è iperesteso per la difficoltà a respirare, o che il respiro solo ieri non era così, come una specie di cronaca ad alta voce della progressione di un declino, tutto mentre lei è lì, sveglia, e contemporaneamente vediamo i suoi occhi sbarrati ripresi dalla telecamera e ci auguriamo che il regista in qualche modo stia proponendo una visione di denuncia pur non fiatando e non esprimendola esplicitamente perché parla da sola. Anche se ci resta il dubbio leggendo i ringraziamenti ai familiari nei titoli di coda.
È una voce continua la loro, una radio che trasmette brutte notizie che non si può spegnere. È non è tanto importante se Mrs. Fang sia cosciente o meno, se si renda conto del contenuto di quelle parole, anche se certo, solo l’idea che lo sia è devastante, ma qualsiasi sia il suo livello di coscienza, fosse anche nullo, che esista qualcuno che parla di noi mentre moriamo, di ciò che è più intimo e doloroso, del passaggio che stiamo attraversando, in nostra presenza quando ancora quel passaggio non è avvenuto come se parlasse della lista della spesa, è qualcosa che, in qualunque angolo di emisfero si sia cresciuti e a qualsiasi cultura si appartenga, risulta quantomeno aberrante.
Nessuno le rivolge mai la parola, nessuno si chiede come si sente, nessuno le prende mai la mano, a un certo punto allunga le braccia, probabilmente nel tentativo di comunicare qualcosa ma le sole attenzioni che riceve sono sempre e solo meccaniche e in questo caso la donna verso cui si protende, semplicemente la respinge indietro. Queste persone hanno tra l’altro una percezione assurda delle loro capacità di cura. A un certo punto sentiamo una donna dire “Se potesse vedere quanto la sua famiglia le è devota…”.
Soltanto alla fine emerge una parvenza di empatia quando un parente che chiacchierando con gli altri critica un nipote per non essere rimasto sino alla fine ipotizzando che alla donna potesse giovare sentirlo vicino e quando una donna che si rende conto della fine imminente si lascia andare a poche lacrime, ma viene subito redarguita.
È fondamentale peraltro sottolineare come Wang Bing sia indiscutibilmente un autore che, come è palese in tutti i suoi lavori, ha sempre espresso un profondo amore verso l’essere umano che é in grado di trasmettere allo spettatore attraverso il semplice uso della telecamera in un modo talmente autentico da risultare poetico. E il paradosso è che lo fa anche in questo caso. Non è facile da spiegare ma guardando il film si ha comunque la chiara percezione che lo sguardo del regista sia molto più empatico e benevolo di quello dei familiari, che in qualche modo, come sempre si percepisce, egli voglia bene al soggetto che riprende, che voglia bene a questa donna. È come se il suo vederla, in qualche modo sopperisca a quanto non la vedono loro e questo probabilmente compensa l’assenza di riguardo da parte dei familiari e in parte impedisce di essere troppo critici verso il fatto che anche lui si trova nel suo spazio senza che lei possa deciderlo o scegliere il contrario.
Parallelamente, il regista cinese inserisce delle riprese esterne che comprendono le quotidiane azioni di pesca di alcuni elementi della famiglia alternate a poche meravigliose immagini di paesaggi di una bellezza impressionante che hanno un effetto rilassante essendo libere da una presenza umana così indifferente, cinica e cacofonica, mentre pongono la comunicazione su un livello più ampio e astratto, che giunge come riflessione su una realtà in cui la morte fa parte del pacchetto, di quel bagaglio che ci danno in dotazione che chiamiamo vita, e che mentre una vita si spegne, la ruota continua a girare, il tempo non si ferma, le azioni di tutti i giorni, il sostentarsi, mangiare, interagire, continuano ad andare avanti incessantemente e in modo relativamente indifferente al fatto che mentre il tempo generale non si ferma mai, quello di ogni individuo è una misura finita, che ha un termine sempre e comunque.