Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico e Turchia. Human Flow è un viaggio, ma soprattutto una testimonianza – meglio ancora, una prova concreta – del fenomeno della migrazione. Ai Weiwei impiega due anni per realizzare questo documentario. Un’opera intensa, cruda e necessaria.
Durante questo viaggio, l’artista cinese, ora residente in Germania, non è sempre dietro la telecamera. L’obiettivo di Weiwei sembra essere quello di toccare con mano il fenomeno. Costretto lui stesso a fuggire dalla sua Cina in seguito alla sua attività politica e artistica (per la sua opposizione al regime è stato recluso per 81 giorni, dal 2 aprile al 22 giugno 2011), il regista viene spesso inquadrato mentre cucina dentro un campo profughi, mentre si fa tagliare i capelli, mentre compra frutta o quando per gioco scambia il suo passaparto con uno dei migranti. L’idea sembra essere quella di dare allo spettatore la sua stessa esperienza. Ascoltare queste persone, ascoltare le loro storie, il loro viaggio, la loro disperazione.
Ai Weiwei si muove su due fronti, da una parte cerca di testimoniare l’imponente massa di persone che viaggiano da un continente all’altro; non solo attraverso i numeri, ma mostrando, grazie l’utilizzo dei droni, questo flusso nella sua totalità; dall’altra intervista sia esperti che testimoni, cercando di dare un quadro più specifico, umano e personale al fenomeno. Per questo l’artista non risparmia lo spettatore dalle immagini e dai racconti più crudi. Quello che accade lui lo mostra. L’occhio della telecamera è l’occhio di Ai weiwei. Ma non l’artista cinese riconosciuto in tutto il mondo, bensì l’uomo, che come tutti, sperimenta sulla propria pelle le stesse sensazioni che proverebbe chiunque.
Immagini di tale portata sono accompagnati da momenti di pura ricerca estetica. Qui, l’artista cinese torna a essere tale e non risparmia allo spettatore una certa cura dell’immagine (nonostante la serietà dell’argomento trattato), immergendo il pubblico in un viaggio che nasconde anche una sua cruda bellezza. L’occhio dell’artista non riesce a trattenere una naturale sensibilità per le location visitate, così, in contraddizione alle immagini dei campi profughi, dei barconi che a stento arrivano sulle coste europee e delle folle impressionanti di persone costrette a vivere di stenti, in Human Flow trovano spazio anche inquadrature dal forte impatto visivo.
Presentato al concorso ufficiale alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Human Flow è stato accolto dalla critica con una certa cautela. Il progetto di Ai Weiwei ha sicuramente una forte importanza documentaristica, ma la presenza solo fisica dell’artista, a discapito di quella critica, nei confronti della crisi dell’immigrazione, ha forse reso il documentario un progetto che non guarda nè al passato nè al futuro del fenomeno, e quindi solo fine a sé stesso.
Tuttavia, le immagini e il racconto dei milioni di volti inquadrati da Human Flow, rappresentati senza nessun tipo di poesia, ma mostrati per quello ogni giorno vivono queste persone, dimostra, in realtà quanto il lavoro dell’artista segni un necessario punto fermo per analizzare il fenomeno nella sua totalità, un documento che mai prima d’ora era stato realizzato. E quando, ascoltando i sogni, i desideri e le paure di queste persone, così simili e vicine a qualsiasi altro individuo, si prende coscienza (sebbene in minima parte) di cosa significhi lasciare ogni cosa per andare verso il nulla, se non la speranza di sopravvivere, allora il lavoro di Ai Weiwei sarà stato giustificato se, per il momento, indugia sul racconto del presente.