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Interviews

Sicilian Ghost Story: Taxi Drivers intervista i registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Taxi Drivers intervista Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, i registi di Salvo (Gran Premio della Semaine e il Premio Rivelazione al 66° Festival di Cannes), e, successivamente, di Sicilian Ghost Story, film di apertura della Semaine de la Critique dello scorso Festival di Cannes

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Raccontare un episodio criminale non è mai semplice, soprattutto se la persona di cui si tratta è un ragazzino innocente e totalmente estraneo alle dinamiche. Giuseppe Di Matteo è stato vittima del potere mafioso per via del suo cognome, un peso che dal 23 novembre del 1993 lo ha travolto fino alla sua morte, avvenuta l’11 gennaio 1996 sciolto nell’acido per mano di Cosa Nostra. Della sua vita, delle sue passioni, non si sa nulla. L’unico ricordo impresso nella mente dell’opinione pubblica è quell’immagine che lo vede nella pratica del salto ad ostacoli. Lui, vestito con la divisa di equitazione, e il suo cavallo, spinti oltre la staccionata. Oltre questo, il vuoto.

La mafia lo ha privato prima di tutto della sua umanità, come affermano Fabio Grassadonia e Antonio Piazza nell’incontro dedicato a Sicilian Ghost Story avvenuto il 16 settembre a pordenonelegge.it – festa del libro con gli autori. In seguito, hanno cercato di cancellarlo definitamente, in modo che non restasse nulla di lui. Prima dei due registi, un autore, Marco Mancassola, ha cercato, con il romanzo Non saremo confusi per sempre, di dare un’anima a 5 personaggi che in questi anni non hanno avuto voce, da Eluana Englaro a Federico Aldrovandi, fino ad arrivare in Sicilia e alla storia di Giuseppe. Quel libro è stato di ispirazione per i due cineasti, che hanno riproposto sul grande schermo quel frammento del testo che li riguarda profondamente, essendo vissuti a Palermo quando era al centro delle stragi e degli attentati negli anni ’90.

 Che cosa tratta nello specifico questo vostro secondo lungometraggio?

(Antonio Piazza): Sicilian Ghost Story è una favola che rielabora la storia vera di Giuseppe Di Matteo, il bambino sequestrato dalla mafia negli anni ‘90 per impedire la collaborazione di suo padre con la giustizia italiana. Il nostro film è ispirato a un racconto di Marco Mancassola che cerca di trasformare questa vicenda in una storia d’amore. Il punto di vista tramite il quale si raccontano i fatti è quello di una ragazzina, Luna, profondamente innamorata di Giuseppe. Non rassegnandosi alla scomparsa del ragazzo, anche attraverso i suoi sogni e i suoi incubi, riesce in qualche modo a raggiungerlo, entrando nell’universo misterioso in cui Giuseppe è precipitato.

La vostra carriera professionale nell’audiovisivo parte dalla fase di scrittura. Avete inizialmente lavorato per la televisione, e subito dopo avete intrapreso la strada del cinema. Entrando nel merito della sceneggiatura, si nota questa commistione di generi differenti. Il film infatti non è solo un racconto di mafia, ma è anche una storia di formazione, con l’obiettivo di dare sensibilità ai diversi personaggi. Vi siete dati dei limiti nel rapporto tra realtà e finzione oppure avete cercato di dare vita a dei soggetti che sulla carta stampata o in un libro non hanno saputo completamente esprimersi?

(Fabio Grassadonia): Noi ci siamo dati un limite, che era di trasfigurare la storia del bambino, in accordo con le nostre esigenze interiori e artistiche, senza però mai tradire la verità storica dei fatti. Abbiamo utilizzato alcuni momenti della prigionia di Giuseppe, così come risultano dai verbali e dai processi svolti nel corso degli anni contro gli esecutori del sequestro e dell’omicidio del bambino. Su quei fatti e su quei personaggi che si sono resi responsabili di quegli avvenimenti abbiamo creato una storia che in qualche modo potesse restituire alla luce questo bambino. Lì la nostra fantasia e la nostra libertà non hanno avuto limiti. L’importante era non tradire la verità storica dei fatti, l’orrore di cui questo ragazzo è stato vittima, ma trovare un modo grazie all’utilizzo dei generi e all’invenzione per restituire una speranza ai coetanei di Giuseppe, alle nuove generazioni, a coloro che hanno subìto la degenerazione della civiltà siciliana degli anni ’80 e ‘90.

Analizzando il percorso produttivo, Sicilian Ghost Story è stato precedentemente presentato al Sundance Film Festival, vincendo il “Sundance Institute Global Filmmaking Award”, per poi aprire, a lavori ultimati, la Semaine de la Critique al Festival di Cannes di quest’anno. Quali sono state le difficoltà riscontrate nella produzione di questo film, anche in relazione alla vostra opera prima, Salvo?

(A.P.): Da un punto di vista produttivo le storie dei nostri due lungometraggi sono completamente diverse. Salvo era il nostro primo film e io e Fabio eravamo praticamente sconosciuti. Avevamo diretto solo un cortometraggio, Rita, che aveva avuto successo. Ma era solo un corto. Ovviamente non era facile trovare le risorse finanziarie per il film. Per noi e per i produttori è stato un viaggio lunghissimo e pieno di difficoltà. Persino dopo la selezione del film al Festival di Cannes nel 2013 non c’era alcun distributore italiano disposto a crederci. Il distributore arrivò solo dopo che l’opera vinse il Gran Premio della giuria. Complessivamente fu un percorso davvero lungo, perché se mettiamo insieme tutto, fu un percorso di circa 5 anni. Sicilian Ghost Story ha invece una storia felice. Innanzitutto io e Fabio venivamo da un riscontro di critica di quel primo film, dal fatto che fu venduto in tutto il mondo. Con questo lungometraggio collaboriamo inoltre con Indigo Film, una delle principali case di produzioni italiane. Mettendo insieme le cose, è risultato un percorso produttivo più liscio.

Una buona parte della critica italiana non ha accolto positivamente l’uscita di questa vostra ultima opera, a differenza di quella straniera che unanimemente ha giudicato interessante la scelta narrativa del film. Vi siete fatti un’idea del motivo? Siamo ancora legati al neorealismo di Roberto Rossellini e di Vittorio De Sica quando si tratta di raccontare la realtà o ci stiamo piano piano avvicinando a un nuovo modo di descrivere ciò che sta attorno a noi?

(F.G.): Sicilian Ghost Story è un film che osa. Abbiamo assunto dei rischi e abbiamo tentato qualcosa che effettivamente non è usuale nel panorama della produzione cinematografica italiana. Quindi sapevamo che partendo da un dato di fatto reale e alla luce di questa elaborazione il film avrebbe diviso la critica.  Così è accaduto. C’è stata una parte di essa che l’ha molto amato, l’ha analizzato in tutte le sue componenti, nella sua complessità, nelle sue possibili interpretazioni. Abbiamo letto alcune cose interessantissime per noi, che ci hanno portato a riflettere e a capire meglio il senso delle scelte fatte. C’è stata invece una parte minoritaria che ha totalmente rigettato il film, fondamentalmente per un pregiudizio ideologico che non ci appartiene. È un tipo di critica che si rifà a un cinema del reale. Quindi indubbiamente questa commistione di generi è qualcosa di indigeribile per questo tipo di approccio critico. Al di là del film, perché non si è andato poi nell’analisi del testo, quello che ci ha colpito in realtà è che alla luce di questo indirizzo ideologico ci si contesta alla radice la possibilità di poter sviluppare la storia in questo modo. C’era una critica che si faceva a monte di tutto il ragionamento, perché afferma che non è legittimo provare a trasfigurare una storia reale così violenta e densa di orrore, a far sorgere da quell’universo di morte qualcosa che sia diverso dalla morte stessa.

(A.P.): Si citava il nome di Rossellini. Quest’anno ricorre un avversario importante di Viaggio in Italia. Mi è capitato di partecipare ad Avellino a una proiezione organizzata dal festival locale Laceno d’Oro, e un critico, Aldo Spiniello di Sentieri Selvaggi, introducendo il film, ricordava come in realtà quel lungometraggio segnò una crisi del rapporto di Rossellini con i critici. Comincia a lavorare con attrici come Ingrid Bergman, e si distacca dallo stile dei suoi precedenti lavori. Quindi fondamentalmente la critica lo rigetta. Quelli che hanno rigettato Sicilian Ghost Story sono gli stessi, anche fisicamente, che hanno avuto da ridire su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, perché aveva un approccio di natura più metafisica e non sociale-politica.

Come ha reagito il pubblico di Palermo di fronte al vostro film?

(F.G.): In Sicilia è andato benissimo. È stata la regione, assieme all’Emilia Romagna, che ha accolto il film con più calore. A Palermo il film è stato in sala dal 18 maggio al 3 agosto, con proiezioni sempre molto partecipate. Siamo andati noi personalmente a presentarlo più di una volta, con un interesse molto forte da parte del pubblico. Evidentemente hanno adottato il film, hanno sentito questa rielaborazione attraverso l’amore della storia di Giuseppe come qualcosa di proprio.

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