Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un film del 2014 diretto da Roy Andersson, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014.
Come una coppia di Don Chisciotte e Sancho Panza dei nostri tempi, Sam e Jonathan, due venditori ambulanti di travestimenti e articoli per feste, ci accompagnano in caleidoscopico viaggio attraverso il destino umano. È un percorso che svela la bellezza di singoli momenti, la meschinità di altri, l’ironia e la tragedia nascosti dentro di noi, la grandezza della vita, ma anche l’assoluta fragilità dell’umanità.
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Per la prima volta chi scrive si è imbattuto nel cinema dello svedese Roy Andersson, e se non è stato amore a prima vista poco ci è mancato. Il regista, che con questo film chiude una trilogia (insieme a Canzoni dal secondo piano e You, the living) sulla condizione umana, dimostra di possedere una profonda conoscenza dello spazio cinematografico, che padroneggia assai bene attraverso l’uso di inquadrature fisse in cui a predominare è una sempre presente profondità di campo che, oltre ad offrire allo spettatore la possibilità di scorrazzare libero sulla superficie del profilmico, incarna esemplarmente il concetto di cristallo che Deleuze postulava nella sua leggendaria ricognizione nel cinema, L’immagine tempo.
Come non sussultare sulla sedia quando Carlo XII e le sue truppe in secondo piano, all’esterno, ma ben messe a fuoco, irrompono nel bar, percorrendo uno spazio che, evidentemente, non è solo fisico, ma soprattutto temporale? Si assiste all’originaria scissione del tempo in cronologico e non. Lo spettatore appassionato potrebbe avere il sospetto di aver allucinato, invece no Roy Andersson l’ha mostrato, l’ha fatto vedere, un po’ come Kieslowki, nell’incantevole Trois couleurs: Rouge, dove l’immagine del volto di Irene Jacobi da mero prodotto di consumo muta valenza e diviene, alla fine del film, l’emblema dell’adesione ai valori della bandiera francese. E allora siamo fortemente convocati a registrare gli slittamenti spazio-temporali, a vagare nel montaggio interno all’inquadratura, a leggere tra le pieghe dei visi pietrificati e imbiancati dei protagonisti, che fanno risuonare per la loro laconicità e rassegnazione quelli di Kaurismaki. Il color pastello-pistacchio della fotografia vela gli avvenimenti e i personaggi, è come se un’altra Storia fosse continuamente presente, nel senso che l’agire umano sembra non trovare mai una vera svolta, aggrovigliato com’è in una piega che è pronta a srotolarsi. Un eterno ritorno? No, più probabilmente si tratta dei cardini della condizione umana, delle sue idiosincrasie insuperabili, di quei tratti peculiari che trascendendo l’attuale aprono un varco sul virtuale, su una temporalità che non è più quella della conoscenza, della tesaurizzazione delle esperienze, ma un flusso interiore inarrestabile, capace di dare corpo a immagini inedite, di ‘rappresentare l’irrapresentabile in quanto irrapresentabile’, senza collassare nella ricaduta idolatrica del prototipo.
C’è qualcosa di estremamente ridicolo nella drammaticità della morte, e la prima parte del film, scandita in tre parti, mostra proprio come quel momento fatidico comporti delle situazioni grottesche, surreali: un uomo muore d’infarto mentre tenta di aprire una bottiglia di vino; una signora sul letto di ospedale stringe tra le braccia una borsa, che vuole portare con sé nell’al di là; un signore muore dopo aver ordinato una birra e un panino, e gli avventori sono invitati a consumare gratuitamente ciò che è stato già pagato. C’è in questo sguardo di Andersson un’ironia impietosa, che sospende l’operatività dell’ordine simbolico, facendo filtrate un’eccedenza che viene immediatamente ricodificata sotto forma di ‘escrescenza’. La rigorosità dello stile, la maturità dello sguardo e la radicalità di questa opera sono esemplari, mostrano l’esito di un cammino artistico articolato e complesso, che invoglia a recuperare i precedenti tasselli della cinematografia del regista svedese.
Insomma, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è uno di quei film che rompono la monotonia di tanto cinema recente spesso decantato a sproposito, invitando lo spettatore a rinnovare lo sguardo, a provare ad ‘ascoltare’ l’immagine. Da non perdere.
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