Un attore in cerca di personaggi, per prendere pausa dalla propria già radicata alienazione: questo è il documentario Jim & Andy: the Great Beyond di Chris Smith dedicato alla realizzazione del Man of The Moon di Miloš Forman e in streaming su Netflix.
Un film che esce oltre la testimonianza e che si fa il suo spazio nel cuore dello spettatore. Perché? Perché nella follia di contorno tocca tematiche non di poco conto. Sì, perché tra le questioni più forti dell’ottimo e commovente documentario di Chris Smith vi è la messa a nudo di un attore che si interroga su se stesso, su chi è, che luogo abita nella propria personalità.
Jim & Andy: the Great Beyond non essere mai se stessi
Si scopre così che Jim Carrey non è Jim Carrey e si scopre che lo stesso vale per noi: il non essere mai noi stessi.
Un tema notoriamente dibattuto dall’antica filosofia greca sino a quella contemporanea che, nel tentativo (un’utopia) di sciogliere il nodo, ha aperto lo spiraglio del comunitario, dell’essere per altri. Sondare il sé attraverso lo sguardo e il confine dell’altro da me.
Un tema che rigetta ovviamente l’idea di una appartenenza geografica o di una linea di confine inscritta su una ridicola mappa. Il confine matura già in noi stessi e avervi accesso può significare un’idealizzazione di sé che non dà corpo al sé ma che lo maschera.
Carrey si pone davanti alla camera e ci guarda, scherza, si gratta la barba, ride, si commuove, per lasciare poi vivo ed eternamente incompleto quell’inquieto interrogativo sulla partecipazione di noi a noi stessi.
Jim & Andy: the Great Beyond l’essere delle idee
Sulla grottesca illusione di frequentare un luogo noto, conosciuto, quando in realtà quella evidenza è un antro oscuro – tipo quello di Trofonio -, un inquieto crepaccio che non ci rivela nulla se non, forse, l’essere incessantemente dei personaggi. L’essere delle idee, idee per noi e per gli altri, coi quali “comunichiamo”.
Non vi è una forma interiore concreta, un sinolo aristotelico. Siamo delle idee e allo stesso modo siamo mimesi di queste idee. Neppure la reminiscenza platonica potrebbe soccorrerci. Che fare allora? Stare male, ospiti di un tour psicotico di cui il documentario di Smith ci mostra inizialmente l’allegra follia, e poi successivamente la problematica che vi risiede, lì, nel cuore del clown. Ed è proprio vero che nella comicità alloggia la tristezza.
Più i personaggi di Carrey (Andy Kaufman e Tony Clifton, ossia sempre lo stesso Kaufman) prendono forma più l’iniziale burla si mostra come qualcosa di difficile gestione. Difficile gestione di Carrey da parte del regista, degli attori, e difficile gestione di Carrey per sé medesimo.
La comicità diventa problematicità, diventa uno stato interiore tormentato. Il documentario di Smith ci conduce con leggerezza verso la questione più pesante: noi stessi. Noi guardiamo Carrey e vediamo noi. Persone che forse esistono come idee, soggetti imprecisi e quindi oggetti. Oggetti che incontrano altri oggetti. Pare non esservi speranza ma solo un continuo trasloco di personalità per riuscire a sopravvivere. Al di là del fatto che tutto ciò (ed io non lo penso) sia una stronzata o meno.
Tre Jim Carrey
Ci sono tre Jim Carrey nel documentario, tre distinte personalità che dall’iniziale risata divengono sempre più una sonda in noi stessi. Non solo in Carrey.
Siamo forse dei mostri? Siamo multiformi e costantemente irriconoscibili? Probabilmente sì.
Con l’unica e non poco sostanziale differenza che alcuni lo percepisco e altri lo vivono e basta. Vivono nel ruolo del proprio personaggio. Come uscirne? Non se ne esce. Non è possibile. Siamo costantemente prigionieri di un’idea, che sia la nostra su noi medesimi o l’idea di altri. Tuttavia qua e là si aprono spiragli e questi spiragli si chiamano sentimenti come, ad esempio, la perdita di un padre, troppo tardi, prima di avergli dimostrato che non sei un buono a nulla. Un padre al quale donare, al momento della chiusura della bara, la scommessa riuscita del tuo riscatto. E pare essere questa è l’unica forma di sopravvivenza. L’unica natura degna di questo nome: la verità dell’irrmediabile. L’essere umano è un personaggio, sempre, ma l’essere nella condivisione più intima ed intaccabile è la traccia più vicina al sé. E non è paradossale che sia un comico, il buffone, a dirci questo. No, non lo è. Il buffone sa che è una forma in mutazione, in trasformazione. Un’illusione. Un personaggio in cerca di un autore, laddove l’autore diventa il personaggio stesso. E in questo vorticoso accavallamento si genera una bizzarra forma di verità mai vera. Una dislocazione. Ed è questo che siamo, una perenne dislocazione. Un ruolo. Uno spazio che è un palcoscenico. Un palcoscenico tragicomico. Un palco ed un attore che vogliono essere un’evidente maschera, dichiarata, e quindi un volto cupo ben nascosto sotto quella maschera.
Il gran bel documentario questo di Chris Smith, un documentario che ci documenta. Ci fa ridere. Ci inquieta. Ci pone degli interrogativi e fa quello che il cinema deve fare, vale a dire non auto-celebrarsi ma raccontare la nostra bellissima e becera natura. Anche questa è la nostra contemporaneità sociale: l’intimità. Che bello quindi quando questo accade. Quando si può ridere e piangere allo stesso tempo.
Forse, ora, solo Jim Carrey poteva essere il protagonista di questo divertente-triste dramma esistenziale. Solo lui, così pubblico e così solo e conflittuale e multiplo, poteva parlare di una cosa così assurda come la singolarità. La non appartenenza a noi. Noi, personaggi che ci feriamo e che feriamo. Forse solo lui, in un periodo in cui onestamente non si può dire che sia l’attore del momento, poteva essere il protagonista di questa forma di incubo: l’identità. Non si può, quindi, non dirgli grazie per essersi esposto in tal modo. In sala si è concesso un’ironica discesa dalla scalinata, come una diva. Lanciando, alla fine, gli occhiali al pubblico, come a dire che ogni tanto la maschera va tolta, lanciata e distrutta. Poi certo si torna sulla Luna e lì si rimane. Nel Great Beyond ove si può tentare di spingere un elefante sopra le scale, sapendo che il peso più grande è quello che ci porteremo sempre con noi: la maschera.
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