La Regina Vittoria ha governato con determinazione e caparbietà il Regno d’Inghilterra dal 1837 al 1901, divenendo una dei più longevi monarchi britannici della storia. Apprezzata dal suo popolo per aver riformato la scuola e migliorato le condizioni lavorative di donne e bambini, è stata incoronata anche Imperatrice d’India, un territorio lontano e antitetico che la donna non riuscì mai a vedere con i suoi occhi. Qualche anno fa, è stato trovato un diario segreto di un bizzarro segretario reale, un servitore indiano che ha riscosso la sua simpatia e la sua stima. La testimonianza dell’uomo è stata raccolta nel libro della giornalista Shrabani Basu, adattato poi per il grande schermo da Lee Hall, il padrino di Billy Elliott. Il regista Stephen Frears – già autore di Florence e Philomena – decide quindi di dirigere Vittoria e Abdul, un intenso, commovente e piuttosto attendibile retroscena storico, volto a mostrare la donna dietro il mito.
La pellicola, infatti, comincia subito con un’immagine nera e un fastidioso rumore fuori campo. È quello del russare di una donna anziana, stanca e fuori forma, costretta dalle usanze di corte a presenziare quotidianamente a eventi pubblici e privati. La donna, per questo, non sorride mai. Mangia voracemente per abbreviare il tempo in compagnia di persone che non stima, chiude gli occhi per non essere costretta a guardare le moine dei suoi leccapiedi, si isola dal mondo esterno per fingere di non volerlo conoscere. La sua vita monotona procede sempre uguale da diversi anni, fino a quando, un giorno, un piacente servitore indiano le consegna una moneta onorifica con un sorriso sulle labbra. Un piccolo gesto proibito, fuori dall’ordinario, risveglia improvvisamente in Vittoria quella leggerezza e quella spontaneità sopite ormai da troppo tempo, e la porta a desiderare di conoscere i misteri di un mondo a lei sconosciuto ma di cui risulta, a tutti gli effetti, sovrana. Contro il consenso dei suoi ministri, Vittoria promuove Abdul da servitore a “munshi”, maestro spirituale, successivamente consigliere e amico. Lo scandalo suscitato da un’amicizia alternativa e inaccettabile, porta il fastidioso figlio Bertie a ordire macchinazioni contro la sua stessa famiglia, sventate solo attraverso il coraggio di una donna attaccata tanto alla vita quanto al regno. Alla sua morte, Abdul e la sua famiglia vengono cacciati dall’Inghilterra, qualsiasi documento attestante il suo legame con la regina viene distrutto, ogni testimonianza, bruciata. Tutto scomparso, dunque, tranne i ricordi di un uomo devoto alla sua sovrana come un figlio verso sua madre.
Stephen Frears conosce i segreti del mestiere, sa come far interagire i propri attori e come dosare sapientemente zucchero, ironia e dramma. Per questo, a Judi Dench, maestosa in ogni situazione, imponente in tutte le inquadrature, affascinante come una dea estemporanea, basta utilizzare le espressioni del volto – inebetite, accigliate, arrabbiate o divertite – per comunicare più di quanto farebbero le parole. D’altronde è lei la sola, unica, protagonista della storia, l’anima della pellicola, la Regina dello schermo. E grazie a lei, Vittoria e Abdul, senza ombra di dubbio alcuna, si rivela un dramma perfettamente riuscito che mostra che “la vita è come un tappeto: tutti noi tessiamo avanti e indietro con l’unico scopo di costruire un’immagine”. La nostra.