Seppur in qualche modo comprensibili i fischi di dissenso e di biasimo che hanno accolto ieri mattina la prima proiezione di un film per molti aspetti decisamente respingente come Mother!, ci si sente di affermare che forse è eccessivamente ingeneroso scagliarsi in modo così deciso e senza appello contro l’ultimo lavoro di Darren Aronofsky, che può certo non incontrare un consenso unanime ma nel quale è possibile riconoscere degli elementi apprezzabili, o quantomeno degni di attenzione. Ridurlo all’apparente disastro che i tanti detrattori hanno proclamato a gran voce appare se non altro approssimativo e superficiale.
Presentato in concorso nella settima giornata, arrivati ormai alla seconda metà di questa 74esima Mostra Cinematografica di Venezia, Mother! appare un lavoro sgargiante e chiassoso, difficilmente definibile in modo univoco. Il regista statunitense mette in un unico calderone probabilmente una mole eccessiva di stimoli, e lo fa in modo traboccante e ipertrofico, risultando effettivamente cacofonico e eccessivamente ambizioso, ma appare sincero nel firmare un lavoro nel quale crede, che si pone di fronte alla mente e agli occhi dello spettatore come fonte di riflessione che si può orientare su un livello potenzialmente multistratificato di significati, comunicati sia attraverso metafore multiple che in modo diretto. Le tematiche individuabili e le riflessioni potenzialmente evocabili, come detto in modo forse un po’ troppo ambizioso, sono multiple e svariate, ponendosi su diversi livelli, che vanno da un piano globale ad uno più intimo e individuale a un altro più spirituale. Tacciato di misantropia, di infantilismo e di estrema superficialità, la sensazione è che i tanti dei detrattori, quelli più critici, abbiano interpretato il film come se fossero assolutamente certi di ciò che il regista avesse in mente e volesse comunicare, dandone una decodificazione unica che francamente appare riduttiva.
Ci sono una serie di nessi biblici che si rifanno all’Antico Testamento, forse percepibili come un po’ pacchiani, laddove il protagonista può essere assimilato a Dio. C’è la figura di una casa, che può rappresentare un paradiso, il pianeta calpestato dagli umani, la scrittura o lo spazio personale da difendere. In conferenza stampa il regista accenna, tra le varie interpretazioni possibili, al ridursi da parte dell’essere umano a una casa, a uno spazio che è bravo a riconoscere come proprio finché delimitato dal concetto di proprietà, ma che diventa molto meno rispettabile nel momento in cui è rappresentato da un pianeta, nient’altro che una casa più grande, che invece non si fa scrupolo a distruggere.
C’è infine contemporaneamente un piano più intimo, anche se forse meno metaforico e apparentemente più banale ma più incisivo, che vede nel protagonista un narciso egoista e infantile totalmente concentrato su sé stesso e incapace di empatizzare o di donare qualsivoglia forma di amore, che usa chi è convinto di amare come musa, senza vederla una volta in quanto persona, ma attribuendole come unica funzione quella di un mezzo per l’espressione di sè, indipendentemente da quanto lei si ostini a dargli, che lui stesso le rivela senza mezzi termini non sarà mai abbastanza, risucchiandone tutta l’energia fino a esaurirla e cristallizzando il suo amore quale semplice prova di riconoscimento, e riducendola, dunque, a uno specchio di sé riciclabile da conservare come soprammobile. E allo stesso modo usa suo figlio, una pura appendice del suo ego, niente di più, sacrificabile alla fama e alla gloria, uniche droghe dalle quali dipende senza avere la minima connessione con il proprio sentire o con quello di nessun altro.
Scritto di getto in cinque giorni, il regista ha affermato che, pur essendo stato influenzato da diversi riferimenti individuabili in favole come Barbablù, o in autori vari, tra i quali Edgar Allan Poe, questi ultimi sono molto astratti e indeterminati, e che in realtà il prodotto finale è venuto fuori da solo in modo abbastanza febbrile e inconscio, più come esigenza di esprimere l’emergere naturale di qualcosa di aspecifico e viscerale che non qualcosa di definito. Aronofsky utilizza diversi strumenti, anche piuttosto sofisticati, per trasmettere dei contenuti o anche solo delle sensazioni, e, per quanto in maniera scomposta e disarmonica, lo fa con non pochi impegno e cura. È evidente come Mother! sia un lavoro creato da qualcuno che non è arrivato alla regia per caso, che ha qualcosa da dire e che soprattutto è perfettamente in grado di padroneggiare il suo mestiere. La fotografia, i colori sempre più violenti e intensi, la potenza del suono, riescono nell’intento dichiarato dall’autore di comunicare progressivamente un senso di oppressione e di invasione sempre più soffocante. L’autore appare evidentemente incantato dalla sua musa, che utilizza in modo narcisistico, mettendola a servizio del suo esprimersi, proprio come il protagonista del suo film, affidandole in modo ridondante gran parte della scena, che riempie con la sua presenza fisica indubbiamente sempre notevolissima e con una quantità non indifferente di suoi respiri e pianti forse non sempre esattamente necessari. Oltretutto, al di là di Jennifer Lawrence, la cui performance può essere più o meno condivisibile, Aronofsky si avvale di un cast di tutto rispetto, composto da Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer, tutti attori non certo di primo pelo, ognuno dei quali ha fatto la sua parte in modo discretamente efficace.
Aronofsky si dimostra quindi, al di là di tutto, particolarmente audace nel presentare una modalità narrativa e una messa in scena che non tengono conto delle reazioni che potrebbero ricevere, e che sono molto più corrispondenti a ciò che lo ha mosso che non a canoni più comodi, che più facilmente avrebbero incontrato il gusto e l’approvazione della critica e del pubblico.