In una di quelle cittadine che si possono trovare nei film di Tim Burton (quando ancora li sapeva fare) arriva una tranquilla famiglia. Parrebbe tutto in regola, Suburbicon è la città ideale. Casette, bei giardini, tutto in ordine perfetto, belle personcine che si salutano con simpatia scorrazzando in bicicletta od uscendo in cortile ad annaffiare le piante. Non fosse, appunto, che questa bella famigliola è di un colore della pelle un po’ antipatico: sono neri. Come in Mezzogiorno e mezzo di fuoco la loro presenza scatena quindi un malcontento che accresce di giorno in giorno. La popolazione è così concentrata nel tentare di ghettizzare la simpatica famiglia da non accorgersi che il male, quello vero, abita in un’altra casa. Una casa di dolcissimi bianchi ove al di sotto della perfezione da cartolina si nasconde il brulicare dell’inquieto, come nei prati di Lynch.
Parte così il sesto film di George Clooney, sceneggiato da lui stesso, ma soprattutto dai fratelli Coen. Il risultato però è molto al di sotto delle aspettative. Un film dei Coen non girato dai Coen ma che sembra dei Coen e che tuttavia passa e se ne va. Non lascia traccia se non qualche risata ed una serie di momenti bizzarri che rendono il film piacevole se si vuole passare una serata allegra che dimenticherai presto, perché domani hai da portare i bambini a scuola. Un film schizoide, frenetico che non ha nulla di davvero memorabile. C’è molto di già visto, già sentito, già tastato. Un film che non aggiunge niente e che nel suo essere grottesco perde in forza, in vera potenza narrativa.
Diciamo che Suburbicon è una versione annacquata di un altro film presente a Venezia 74, Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh. La pellicola di McDonagh è un filmone, quella di Clooney è un filmetto. Per carità il cast funziona, Matt Damon è bravo e buffo, Julianne Moore doppiamente brava e Oscar Isaac (il migliore del cast) lascia il segno. Ma non basta. Il film è un divertissement ove ne succedono di tutti i colori (non solo il bianco e il nero), in cui però da un certo punto in poi si spinge troppo sul pedale dell’acceleratore e sembra più che altro di ritrovarsi nel mondo dei Looney Tunes, con tanto di tipiche scene di piccole catastrofi, tipo Will Coyote che d’improvviso viene colpito dalla qualsiasi. Il piccolo mondo di Suburbicon precipita e con lui il film. Esilarante come una barzelletta ascoltata in auto poco prima di andare a comprare il latte, codesto film di Clooney porta con sé naturalmente tutti i discorsi politici dell’attore-regista, sbeffeggiando quel mondo di zotici bianchi, da una parte, e quello di bianchi apparentemente corretti e in ordine all’interno delle loro perfette vite domestiche, dall’altra. Quei bianchi che non vedono l’ora di sbarazzarsi dello straniero. Tema, questo sul discriminare, abbastanza presente alla Mostra.
Come Helen Mirren nel bellissimo film di Virzì getta con disprezzo una spilletta di Trump, anche qui vediamo un oggetto dell’ignoranza razzista gettata a terra. Il discorso politico è palese ed il suo intento è sia ridicolizzare che denunciare. Mostrare come sia importante – ora più che mai – raccontare le brutture del contemporaneo essere umano spaventato dallo straniero e straniero anche a se stesso (si veda qui il toccante documentario su Jim Carrey, presentato sempre a Venezia 74). Clooney dietro la macchina da presa ha sì il gusto grottesco dei Coen, ma toglie sia il meglio dei Coen che il meglio di sé, ed il risultato finale è un divertimento piatto. Uno scherzo simpatico. Un dimenticabile momento di spensieratezza. Questo perché probabilmente i Coen registi avrebbero realizzato un film più cupo, meno edificante, con un tono più pessimista. Clooney, invece, tira fuori il democratico che c’è in lui è realizza una pellicola senza arte né parte – in quanto in bilico tra due linguaggi – arrivando a dirci una cosa che sapevamo già tutti, ossia che la mente dei ragazzini è molto più aperta e costruttiva di quella degli adulti.
Non c’è una piacevole freschezza nel film. Troppo pressante la presenza (assenza) dei Coen che, come detto, avrebbero forse sì fatto divertire ma anche creato momenti più cupi e cinici. Momenti meno esagitati in questa forma di un sollazzo quasi fine a se stesso. Non che Suburbicon sia un brutto film, anzi. Semplicemente non è nulla di eccezionale, rimane ingabbiato in una sorta di miscellanea schizoide. Lo guardi, ti fai due risate e finisce lì. Ne perde in ciò anche l’elemento sociale. La famiglia afroamericana è totalmente privata di una qualsivoglia personalità, sono pressoché tutti muti. Forse approfondire un po’ di più anche il loro quadro famigliare avrebbe dato meno evanescenza alla pellicola. Mi vuoi in fondo dire che la discriminazione è una nauseabonda piaga, ma tu stesso non dai spazio a quei neri discriminati. Sono come tre manichini che si riuniscono a cena e che al più cercano di non farsi conquistare la casa dagli invasori veri e propri: i bianchi, che siano bianchi nazisti dell’Illinois o del nordest. Solo per fare un esempio delle numerose pecche del film e del suo essere un simpatico esercizio e nulla più.