È bianco. È freddo. Siamo dentro una vasca. Bambini che sfidano gli adulti a colpi di sguardi. Sguardi pagati a suon di ghiaccio su ghiaccio. Poi immersioni per ore, anche 20 (come descrive in Trilogia della violenza la poetessa Mariella Mehr), dentro quella coltre d’acqua sempre più gelida e insieme placida. Valentina Pedicini, dopo le apnee dentro cui ci ha immersi con il precedente Dal Profondo sulle lotte minerarie del Sulcis, riesce a farci gelare tra l’immobilismo dei corridoi e l’ala ovest delle torture di questo Dove cadono le ombre. Le coordinate spazio-temporali sono perse come le perdevamo a 350 metri sotto il livello del mare nelle buie cavità della terra. Sfuggono soprattutto ad Anna e Hans da sempre (re)legati allo stesso luogo: un istituto dove sono stati rinchiusi piccolissimi per essere ‘corretti’ geneticamente ed in cui ora prestano assistenza ad anziani, con una continuità e impassibilità disarmanti. Ma la Storia ricorda quali sono queste coordinate.
“La parola Rasse, razza, deriverebbe dall’arabo ras, che vuol dire inizio, origine, capo. Entrò a far parte della lingua tedesca nel Seicento, presa a prestito da inglese e francese … In Germania le teorie raziali ebbero tuttavia la maggior diffusione e la più alta valenza politica: il Terzo Reich fu il primo stato della storia universale ad adottare il razzismo come dogma e nella prassi” scrivono Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann ne Lo stato razziale. Classificazione quella razziale che da Gobineau a Darwin (che nonostante non destinasse le sue teorie alla società umana si ritrova ad essere l’involontario progenitore dell’ideologia razzista quando ‘miglioramento’ e ‘progresso’ sono caricati di implicazioni morali dal darwinismo sociale) per approdare a Francis Galton pone in ombra un significato rispetto ad un altro. Dove cadono le ombre di Anna e Hans? La scelta dei blu, per quasi tutto il film, e della luce naturale operata dal direttore della fotografia, Vladan Radovic, che penalizza le ombre negli interni, non lascia speranza visiva: le ombre di Anna (Federica Rosellini) e Hans (Josafat Vagni) sono riavvolte su se stesse dentro i loro corpi, come le stanze di questo posto e le loro vite. Anna e Hans sono l’ombra di se stessi e vivono all’ombra dei ricordi, in particolare quando la carnefice Gertrud (Elena Cotta) interferisce con il loro presente. La dottoressa madre, punitiva, sadica, sconcertante nella sua superiorità razziale, è dopo 14 anni ancora in grado di esercitare la sua influenza anche sulla più forte tra i bambini, la ‘nomade’ ma preferita ‘figlia’ Anna, che ora è decisa a fargliela pagare.
“Psicopatici”, “deficienti”, “ladri”, “vagabondi”, “congeniti asociali”, “puttane” sono stati gli appellativi più in uso per definire nei secoli, escluso il periodo del Romanticismo, la ‘piaga’ del nomadismo di non assimilati e reietti come Rom, Sinti, Kalè. Nel 1926 “in Germania l’azione della polizia bavarese fu resa più efficace dalla promulgazione di una legge per la lotta contro zingari, senza lavoro e nomadi” (Lo Stato razziale, pag 110), ma bisognerà attendere il ’36 per trovare il fondamento alla persecuzione sistematica di questi popoli che paradossalmente hanno origine ariana (Punjab). Ritter ‘scova’ nelle migrazioni la motivazione per renderne impuro il sangue. Agli impuri si aggiugono i Jenisch. Questi ultimi rivendicano origini celtiche ed hanno una lingua tutta propria la cui radice germanica contiene influenze dall’yiddish al romaní. Nello stesso 1926 la civilissima Svizzera da già pieno sfogo ai dettami di Francis Galton “I giovani sani – e con questo egli intendeva gli appartenenti alla classe media e alle professioni liberali – dovevano venire incoraggiati a sposarsi precocemente e ad avere il maggior numero possibile di figli. A tali genitori ‘idonei’ si doveva rilasciare un certificato di salute ereditaria, mentre le persone che non superavano questo esame andavano al contrario incoraggiate a emigrare: dove non si sa” (Lo stato raziale, pag 39). Galton conia nel 1883 il termine eugenetica per migliorare le qualità ereditarie attraverso mezzi genetici. La Confederazione elvetica, da secoli sperimentatrice di neutralità all’esterno, adotta il programma ‘Hilfswerk fur die kinder der landstrasse’ grazie ad Alfred Siegfried, responsabile della sezione scolarità infantile della fondazione Pro Juventute. Per Siegfried la separazione dei bambini dai genitori, la tutela permanente con ricoveri in cliniche o in case di detenzione, l’affidamento a famiglie ‘idonee’ e la sterilizzazione erano fondamentali per eliminare l’ereditarietà di comportamenti asociali incompatibili con i principi di ordine della società borghese. Questa tragedia prosegue fino al ’75 con il risultato che dei 35000 Jenisch presenti sul territorio svizzero solo 5000 sono oggi nomadi e vivono un costante scontro con alcune autorità locali che non concedono permessi per zone di sosta. Nel ’33 lasciarli in movimento era “un mezzo per costringerli a fermarsi”, per assimilarli (Lo stato raziale, pag 110)
Dove cadono le ombre sembra concludersi in più punti che non sono una fine, terminando fortunatamente sull’unico colore caldo del film. Ed anche se queste deviazioni possono essere disturbanti, le uniche rispetto una violenza perfetta, ciò che resta è il contributo visivo notevole apportato da Pedicini ad una pagina di storia quasi completamente sconosciuta. Uscendo dalla vasca rivoli d’acqua si disperdono sulle piastrelle bianche del pavimento. Il giornalismo, che con il settimanale Der schweizerische Beobachter fa scoppiare il caso negli anni ’70 mentre molte strutture erano ancora attive, gli archivi della Pro Juventute, che certificano 585 vittime e quelli non accessibili di altre associazioni che potrebbero far salire il numero a 2000, le istituzion, che sul finire degli anni ’80 riconoscono responsabilità morali, politiche e finanziarie, la mancata giustizia di Stato, perché non ci sono state condanne e la così detta giustizia privata che può decidere di placare la vendetta con un fiore.