Il giovane Sebastiano Riso torna al cinema con Una famiglia, suo secondo lungometraggio dopo Più buio di mezzanotte (2014) e secondo titolo italiano in concorso alla kermesse veneziana, con protagonista un’insolita quanto interessante coppia, formata da Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel.
La vicenda si svolge tra Roma e Ostia. No, non quella città pettinata a cartolina che frequentemente ci ripropongono. Ma periferie anonime dove le persone si aggirano con discrezione, come se volessero mantenere i loro segreti ben custoditi all’interno delle loro, apparenti, asettiche vite. La coppia formata da Maria e Vincenzo – lei emaciata, magrissima, avvolta da grigi maglioncini slabbrati; lui nato a Parigi, fascinoso, «dagli occhi buoni» – nella sua facciata di normalità, nasconde un tremendo segreto: vendere i bambini concepiti assieme a facoltose coppie. E si parla di cifre dai 50mila euro in su. Maria, soggiogata dal compagno, inizia una ribellione psicologica quanto fisica contro quest’ultimo. Dopo la morte dell’ultima neonata venduta, il corpo della giovane donna si fa sempre più fragile. Prima della definita impossibilità di continuare altre gravidanze, Maria vuole a tutti costi creare definitivamente la sua famiglia. Vincenzo, però, nella sua freddezza, non sembra essere disposto a perdere una fonte notevole di guadagno.
Una famiglia è una storia straziante (scritta dal regista con Andrea Cedrola e Stefano Grasso), tratta da avvenimenti realmente accaduti, come ha dichiarato lo stesso Riso, che mette a nudo il doloroso argomento del mercato nero infantile: «Non esagero se dico che il risultato di quelle letture è stato un vero e proprio shock: emergeva una realtà brutale, atroce, che sapevamo di dover maneggiare con cautela per poterla rendere materia narrativa», continua il regista, «siamo sprofondati in quelle realtà per assorbirne al meglio atmosfere e dinamiche, poi ne siamo riemersi e abbiamo sentito il bisogno di distanziarci durante la scrittura della nostra storia e dei nostri personaggi».
Una distanza, appunto, che si nota sia sulle scelte di regia che di recitazione. La sequenza in cui Bruel ‘strappa’, come se le sue mani fossero un raschietto, la spirale contraccettiva che Ramazzotti si era fatta inserire segretamente dal medico; o la veglia funebre casalinga della piccola Sara, morta dopo dieci giorni. Entrambe sono tanto cruente sulla carta quanto suggerite nella narrazione delle immagini: la camera si allontana dai fatti poco prima della tensione rivelatrice. Lasciando, così, un largo margine di discrezione, di intimità ai personaggi e al loro dolore, alle loro lacrime, alla loro disperazione.
Sull’interpretazione, invece, Patrick Bruel, che recita in presa diretta e rigorosamente in perfetto italiano, risulta un’opzione artistica azzeccata, come spiega Riso: «La sua nazionalità era fondamentale per parlare dell’Italia in maniera più distaccata, perché quelle leggi assurde e quel bigottismo sarebbero state viste dall’esterno, come un occhio partecipe ma non coinvolto fino dalla nascita, non abituato a certe dinamiche che troppo spesso gli italiani danno per scontate, come se fossero naturali».
Micaela Ramazzotti, con occhiaie e ricrescita, è brava nel dare corpo e voce a una donna fragile, il cui patetismo viene tamponato dall’amore e dalla determinazione materna. Anche se a volte un po’ sopra le righe. Completano il cast, Pippo Delbono, Ennio Fantastichini e Matilda De Angelis, volto celeste che Bruel vorrebbe sostituire a Ramazzotti per continuare la sua attività lucrativa. Poco prima del finale, dieci minuti che dilaniano anima e carne, occhi e timpani.