C’è qualcosa che non funziona nello strabordante documentario (presentato in concorso a Venezia) dell’artista dissidente cinese. Cosa? Ai Weiwei stesso. Nelle lunghissime due ore e venti ciò che spicca è certo il problema umano dei rifugiati ma purtroppo fa capolino anche il corpo del regista. Essendo un artista propriamente detto e non un cineasta propriamente detto, Ai Weiwei si lascia conquistare dal mezzo cinematografico per lanciarsi in tutta una serie di momenti non necessari. Molte inquadrature, per quanto suggestive, si ripetono e quindi rispecchiano in modo superfluo l’occhio che sta dietro la macchina da presa. Si palesa troppo il bisogno di far arte per immagini, l’ego dell’ideatore. I volti dei rifugiati ripresi immobili, un origami che svolazza nel vento che grida poesia e libertà, la sofferenza di una donna vista di spalle con il regista che cerca di consolarla, gli eccedenti voli dall’alto, le passeggiate di Weiwei tra le pecore, addirittura una immagine che lo vede nell’atto di farsi tagliare i capelli. Il balzare di Weiwei da un paese all’altro (23), per mostrare l’urgenza di un esodo migratorio mai così massiccio dalla Seconda Guerra Mondiale, non arriva al cuore ma stanca. Stanca nella sua ripetitività e in questa ottica artistica e lenta. Nessuno mette in dubbio il dramma di milioni di persone in fuga, le loro difficoltà a vivere l’ora dopo ora, a vedersi respinti, non riconosciuti, trattati come mandrie, lasciati in balia di malattie e barriere innalzate dai paesi confinanti. Questo è indubbio – l’evento in sé – e ferisce lo spettatore che è ancora in grado di empatizzare con una realtà che è diventata un’abitudine se non una minaccia.
Non è il contenuto intrinseco del documentario ad essere asettico, non può esserlo. Ciò che non funziona è il mezzo, il documentario in questa forma, per quanto nobili e necessari i suoi intenti. Nessuno mette in discussione la tragedia e la sua risoluzione. Weiwei stesso l’ha detto in conferenza stampa: l’umanità è un unicum. Siamo tutti collegati. Il problema certo riguarda i rifugiati ma anche noi come spettatori di questa tragedia. Ascoltare le storie di queste donne e di questi uomini è un dovere morale che dovrebbe fare parte della natura umana. Purtroppo il problema di Human Flow è di essere didascalico ed eccessivo. Non c’è bisogno di essere eccessivi quando quello che mostri lo è già di suo, eccessivo nel suo dramma. Weiwei che si fa tagliare i capelli o che cammina lungo il muro che divide Stati Uniti e Messico cosa vuole dirci? Ci dice Weiwei è qui. Ma lo spettatore questo lo sa già e francamente non gli interessa. Ma Weiwei vuole esserci, anche in forma di hashtag. I suoi rifugiati invece continuano a restare una massa, piccole formiche riprese con un’ottima qualità visiva alla pari di un documentario che perlustra la quotidianità delle migrazioni dei condor. Vi è poca traccia di una vera e propria testimonianza, di una partecipazione non iper-emotiva, di un qualcosa di tangibile. Quello che c’è è forma. Una forma di qualità, di ottimi pixel ma di pessima introspezione. I rifugiati rimangono fantasmi e di loro non ne percepiamo la partecipazione del loro dramma ma solo la spuria immagine. Infastidiscono in tal senso anche le frasi poetiche che ogni tanto il regista mostra sullo schermo, come un voler affilare il dolore tramite messaggi ulteriori. Paradossalmente eco a questo tipo di produzioni vanno date, certo. Se ne ha bisogno ed è davvero un dovere umano documentare e parlare della sofferenza di altri esseri umani molto meno fortunati di noi. Noi che vorremmo aiutarli a casa loro e noi che “prima gli italiani” o altre idiozie del genere giacché ciò che deve sempre venir prima è la cura di chi ha perso tutto. Di chi ha perso persino l’identità, di chi è divenuto branco.
Il grave errore nell’ignorare è quello poi di trasformare il dolore altrui in una sorta di competizione, laddove poi si sentono cose insulse come “pretendono di essere rispettati nelle loro abitudini” e “guai a parlare male di loro”. “Prima gli italiani!” (se si riflette poi a come un italiano riesce a mantenere una coda alla cassa siamo davvero in balia delle onde). Siamo smarriti nella geografia, nei confini, ci dice Weiwei. Persi in uno scarto, senza afferrare quella linea che un filosofo della comunità come Nancy discuterebbe in termini di altro da me e di me partecipe. Persi in quel senso osceno di priorità territoriale che non vede un essere umano che fugge da orrori che cerchiamo appena di comprendere ma che vede un non italiano (per dire) che occupa il nostro bel paese. Ignorando che il nostro bel paese può essere bello solo se non frana in questo spettro di spazi invasi. La vera gerarchia da rispettare è quella della comunità, e la comunità è il pianeta. Questo il – purtroppo prolisso – documentario di Weiwei ci dice alla fine e nonostante il suo risultato non sia proprio dei migliori l’intento lo è sicuramente. È lo è perché noi siamo quelle persone che camminano, noi siamo quelle persone respinte dalla polizia, noi siamo quelle persone rigettate da alcune parti, cosiddette, politiche. Noi siamo in quei campi senza acqua e bagni. Noi non siamo solo berlinesi, siamo anche rifugiati. Solo che loro lo sono in senso effettivo mentre noi lo siamo in senso mentale. Rifugiati nel pregiudizio e nelle nostre priorità. Sì, c’è bisogno di dare eco a opere come questa, ed è uno dei tanti meriti di un festival come Venezia. Tuttavia, spostando lo sguardo sul risultato, Human Flow enfatizza in un modo a tratti pacchiano il dolore. Lo rende bella messa in scena. E, come detto, a depauperare in eccesso c’è la presenza corporea del regista che appare in camera senza alcuna motivazione e risultando fastidioso, fittizio (non volendo di certo esserlo) e sottraendo la verità per condurla alla spettacolarizzazione. Una spettacolarizzazione, come dire, artistica. Non che il cinema non sia arte (ovvio) ma il documentario ha un linguaggio che deve sottrarsi all’ego artistico per lasciar parlare i protagonisti. Human Flow fallisce in tal senso. Non fallendo, come detto, nel messaggio alla base, ossia l’umanità, la pietà, l’empatia. Non c’è bisogno di dilungarsi per farti comprendere una contemporanea tragedia che sta rivoluzionando il nostro (di tutti) mondo. Per capire, Kobane Calling di Zerocalcare nella forma graphic novel riesce a raccontare l’attualità in una pagina (che lui chiama “pippone”) più di quanto sia riuscito a fare il documentario di Ai Weiwei in 120 minuti di distanza. E questo è davvero un peccato.