Diversi i modi con cui è stato definito dal punto di vista del genere entro il quale collocarlo, il nuovo lavoro di Andrew Haigh, Lean on Pete, presentato in concorso nella terza giornata della 74esima Mostra di Venezia. On the road, racconto di formazione, trasposizione di un romanzo.
In realtà questa toccante pellicola rappresenta prima di tutto la drammaticità della profonda solitudine interiore insita nell’animo di qualcuno che viene abbandonato dai propri punti di riferimento primari, quelli che dovrebbero corrispondere ai suoi bisogni e riscaldarlo, sulla base dei quali dovrebbe formarsi la sua personalità, la sua forza, il suo senso di amabilità.
Punti di riferimento che quando non lo abbandonano si dimostrano assolutamente non in grado di curarsene e di cui anzi, come spesso accade, è lui che deve occuparsi, o meglio, che ne sente il dovere, responsabilità che pesa e cozza enormemente con lo sviluppo della sua spontaneità determinando la perdita anzitempo della spensieratezza cui avrebbe avuto diritto. Una solitudine che si percepisce a pelle, che la si vede negli occhi, nell’espressione del viso, nella gestualità, addirittura nelle mani, qualcosa che si sente con intensità disarmante anche soltanto guardando qualcuno che ha subito perdite importanti in tenera età. L’estremo e disperato bisogno di affetto, che si esprime in ogni suo più piccolo e apparentemente casuale movimento, in ogni variazione della sua mimica, investe potentissimo chi vi si trova vicino, suscitando l’istintivo desiderio di farlo sentire amato, accompagnandosi peraltro sempre dalla continua e inevitabile incapacità di fidarsi e di lasciarsi andare a manifestazioni affettive anche quando gli vengono espresse.
A meno che non si tratti di un cavallo, un animale solo e senza speranza come lui, con il quale riesce a sviluppare un legame profondo e tenero, in quanto libero di poter manifestare la sua emotività, di raccontargli i suoi ricordi, i suoi segreti, di accarezzarlo e curarsi di lui senza avere paura di esporsi e avendo la certezza che non lo abbandonerà.
Tutto questo è espresso magnificamente dalle indubbie e notevolissime doti interpretative di quella che molto probabilmente rappresenterà una delle maggiori sorprese di questo concorso, Charlie Plummer, un ragazzo di 18 anni dal viso incredibilmente espressivo e dalla forte presenza scenica, che incarnando perfettamente il suo personaggio, da solo regge praticamente tutto il film, riempendo totalmente la scena senza mai eccedere e riuscendo a fare ombra agli altri due interpreti di ben più datata esperienza che hanno recitato insieme a lui, i comunque bravi e decisamente in parte Steve Buscemi e Chloe Sevigny.
Andrew Haigh, dopo il bellissimo Weekend e il più noto e riconosciuto 45 anni, dirige in modo esemplare confermandosi un autore di grandissima sensibilità e rara capacità di raccontare con delicatezza e attenzione vissuti emotivi e stati d’animo complessi e difficili da rappresentare, cogliendone le sfumature più impercettibili e inserendoli sapientemente in un contesto e in una narrazione efficaci e potenti.
La pellicola è basata sul romanzo La ballata di Charlie Plummer di Willy Vlautin, narrante le vicende di un quindicenne che rimane solo e cerca di cavarsela facendo appello alle uniche figure sicure che si presentano nella sua vita, il ricordo di una zia che si è presa cura di lui e Lean on Pete, il cavallo cui si affeziona e che lo accompagnerà in buona parte del suo percorso. Il contesto è quello dell’Oregon, ripreso sensibilmente nei suoi paesaggi più suggestivi. Anche nelle singole inquadrature, che si parli di interni o esterni, Haigh riesce a trasmettere un senso di pienezza che colora e avvolge l’atmosfera emotiva insita negli eventi narrati. Il film verrà distribuito dalla Teodora Film, così come i precedenti del regista inglese.
Nonostante la tristezza, il dolore, il senso di perdita che permeano l’intera opera, c’è speranza al suo interno, Charlie non si dà mai per vinto, non rinuncia, non crolla, non arriva mai a credere che non verrà più lasciato, in questi casi nessuno ci arriva, ma quantomeno riesce a provare, a seguire una direzione, ad affidarsi a quel bisogno gigante a e che per quanto lo esponga a soffrire, è l’unico che può motivarlo a stare in piedi e ad andare avanti, ma soprattutto l’unico che possa ancora regalargli la possibilità di ricevere ciò che gli è stato negato e magari un giorno di sentirsi appagato o addirittura felice.