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Downsizing di Alexander Payne con Matt Damon

In questo nuovo film Alexander Payne non solo fa sostanziali passi indietro ma si rimpicciolisce lui stesso, costruendo un futuro distopico in bilico tra commedia e dramma, una non collocazione che isterilisce un soggetto che poteva anche rivelarsi decisamente più suggestivo

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Arriva su Netflix e finisce in classifica Downsizing di Alexander Payne. A detta del suo mini protagonista (Matt Damon), è il suo film più ottimista. Ci sarebbe anche da credergli visto le insidie che nel corso degli anni hanno dovuto vivere i suoi personaggi: dal genio tormentato all’uomo da salvare eternamente a tutti costi. Questa volta però Damon non è più l’uomo da salvare, ma l’uomo che vuole salvarsi. Peccato che ora si ritrova impelagato in una pellicola difficilmente soccorribile. In questo nuovo film Alexander Payne non solo fa sostanziali passi indietro ma si rimpicciolisce lui stesso, costruendo un futuro distopico in bilico tra commedia e dramma, una non collocazione che isterilisce un soggetto che poteva anche rivelarsi decisamente più suggestivo.

La trama di Downsizing

Paul Safranek (il cui stesso cognome subisce già solo nella corretta pronuncia una trasformazione) è un brav’uomo e un buon fisioterapista che vorrebbe costruirsi un futuro decente con l’amata compagna, Audrey (la sempre ottima Kristen Wiig qui ridotta a poco più che comparsa). Le incombenze finanziarie e i mutui non sostenibili costringono però i due a rinunciare alla vita sognata. Per fortuna in loro soccorso giunge l’invenzione del secolo, ossia la possibilità di far rimpicciolire gli esseri umani, garantendo così una enorme economizzazione per il pianeta. L’essere alti dodici centimetri consente infatti un minor costo sia in fatto ambientale che in quello sociale. Il vantaggio poi lo hanno anche i rimpiccioliti, giacché possono godere di elevati benefici a poco prezzo. Ecco quindi che la coppia vede aprirsi davanti a sé la concretizzazione del loro felice futuro insieme. Peccato che poi qualcosa andrà storto e Paul si vedrà costretto riscrivere la sua esistenza.

La recensione

Come detto il nuovo film di Payne parte con un’idea certo non originalissima, ma non così deplorevole; anche perché qui non ci si fa piccini solo per testare nuovi orizzonti in ambito clinico (Viaggio allucinante, Salto nel buio) ma per andare incontro a serie e contemporanee problematiche: lo sfruttamento del pianeta e i danni ambientali. Alexander Payne prende però uno spunto suggestivo (il film ha richiesto dieci anni per essere realizzato) e offre allo spettatore un panorama emotivo distante anni luce da quello di Sideways o Nebraska (giusto per citare film che fanno capire che Payne è uno capace, quando si applica). Come il regista ha detto in conferenza stampa, il discorso politico deve essere messo da parte, anche se il rischio è quello di realizzare un film politico (la comunità, le minoranze sono un discorso politico) che nasconde se stesso e si autodistrugge. Si autodistrugge facendo prevalere i sentimenti (qui pretestuosi) all’interno di una questione ben più giusta e da approfondire.

Pregi e difetti di Downsizing

Inizialmente il film indovina alcuni passaggi: la camera di rimpicciolimento come un grande microonde, il corpo denudato fino all’ultimo pelo e preso con una paletta, l’affidarsi in modo inquietante all’uomo gigante, il confine tra la forza assoluta e l’assoluta debolezza. L’uomo è misura di tutte le cose, asseriva Protagora. Quando però il tuo punto di vista si fa oggetto e soggetto di una parte dell’umanità che decide di rimanere “grande” la questione sulla misura delle cose diventa davvero problematica.

Di tutta questa irrequietezza nel film di Payne c’è davvero poco se non sporadici riflessi, immagini che nell’essere buffe celano un perturbante. Questa assenza di una direzione precisa, questo sfiorare temi universali, questo sorvolare con troppa leggerezza sull’umano – inserito come un Lego in un mondo altro – rendono Downsizing un film sbagliato. Tralasciando (giustamente) gli aspetti scientifici in quanto quello che deve contare in un film del genere è la storia, ciò che non regge è la veridicità del discorso emotivo. Cosa accade quindi? Accade che il discorso comunitario viene distrutto sempre più e accade che i personaggi, e in particolar modo il suo protagonista, diventano veramente piccoli; fino ad allontanare la partecipazione dello spettatore. C’è davvero poco da salvare in un film che sfiora i discorsi e poi volta le spalle, dirigendosi in inutili variazioni sentimentali.

Un film che, pur volendo rispettare la struttura commedia-dramma, poteva non barare, concentrandosi su feste divertenti o su gruppi hippie, ma poteva far sorridere amaramente sui pericoli insiti nelle doppie comunità, nelle relazioni tra gli esseri umani, sul pericolo, insomma, di essere per davvero una piccola e insignificante porzione del cosmo. Si dirà, tematiche queste non adatte ad un film che vuole innanzitutto essere una commedia, ma alla base Downsizing è questo e vuole dirlo. Ma non lo dice, o meglio, lo dice male, lo dice in modo scomposto, suggerendo più che argomentando. Quello che in questo calderone si salva non sono alla fine né la storia né i personaggi ma i suoi protagonisti: il riuscito duo Udo Kier e Christoph Waltz (qui finalmente calibrato nel suo gigioneggiare) ma soprattutto Hong Chau che interpreta l’idealista Gong. Downsizing è una piccola (è il caso di dirlo) occasione sprecata da parte di un regista che (in fondo lo sappiamo) avrebbe potuto fare molto, molto di meglio.

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