“Povero Cristo, girato nel 1975 senza orpelli né ornamenti, tra gli stracci e la polvere, tra le puttane e i disadattati, in piena convergenza con i costumi e le scenografie da arte povera, è la prima delle due pellicole che Pier Carpi ha diretto a partire da sue stesse opere letterarie”
Fumettista (sceneggiatore di Diabolik ma anche delle versioni italiane di Superman e Batman) e scrittore di riconosciuto valore, omaggiato recentemente dalla Cineteca Nazionale con una giornata di ri-scoperta del suo lavoro, Pier Carpi ha diretto anche due lungometraggi tratti da sue stesse opere letterarie.
Il primo dei due (l’altro, il thriller “esorcistico” Un’ombra nell’ombra, è del 1979) è Povero Cristo, girato nel 1975 senza orpelli né ornamenti, tra gli stracci e la polvere, tra le puttane e i disadattati, in piena convergenza con i costumi e le scenografie da arte povera (l’autore è Mario Giorsi, e il riferimento più evidente è quello de La venere degli stracci di Pistoletto).
In una pellicola imbevuta fino all’orlo di simboli e di rimandi in chiave allegorica, Giorgio Cavero – un Mino Reitano trentenne, doppiato, in ostentata pacatezza e moderazione espressiva, sorprendentemente ben lontano dal tono patetico e popolaresco della sua carriera canora – è un falegname allo sbando incaricato da un’oscura figura di trovar la “prova vera” dell’esistenza del Cristo (cento milioni in cambio delle prove!).
Facendosi metafora del cercatore come detective, tra angosciata umiltà, slanci d’orgogliosa ribellione in nome della verità e atteggiamento da cane bastonato, quella che compie è una completa traiettoria evangelica, orbitante tra l’esistenzialismo e il thriller (e quale genere potrebbe avvicinarsi più di questo in effetti alla caccia al proprio Dio – il colpevole/l’artefice/la vittima delle nostre azioni), con una pistola a sostituir la croce come strumento di tortura nella “passione” finale.
A voler rintracciare i segni del percorso, ogni ruolo è scoperto come riflesso speculare d’una figura biblica: dagli apostoli (gli sgangherati hippy “fratelli della notte”) a Barabba (l’anarchico Basta); da Giuda (è l’informatore che consegna alla polizia il cercatore) a Pilato (è il capo della polizia stessa); da Pietro (il pescatore che offre la chiave del suo scantinato per allestire un’improvvisato studio investigativo) alla Maddalena (è una triste e smarrita prostituta); dall’inviato di Cesare (e d’ogni potere temporale: l’uomo che chiede la prova e offre la ricompensa) ai due ladroni (i criminali che gli siedono a fianco in questura); fino agli inevitabili miracoli e all’ultima cena, con la licenza provocatoria di tratteggiare il diavolo come un furbo e ambiguo “prestigiatore” (poiché è demoniaco creare prove false e illusioni – e il cinema allora, ingannatore per immagini, è chiaro da quale parte stia…).
Immerso, anche grazie alle note “progréssive” della colonna sonora e ai “vuoti metafisici” degli esterni notturni, in un’atmosfera lunare, onirica, scossa dal procedere esitante del suo protagonista, il film di Pier Carpi avanza misterioso, sempre sul punto (non varcato) di sfociare nel ridicolo, tra momenti surreali (gli orfani legati agli alberi; e poi soprattutto la disperata ricerca della prova: si fermano i passanti e le auto chiedendo: tu credi in Gesù?) e una presa di posizione di chi, con la speranza e la fede del cercatore inesausto, finisce con il sostenere che trovar Cristo è, letteralmente, trovare sé stessi.
Con la pecca d’esser voluto diventare troppo didascalico nello svelamento finale – un’agnizione che il plot e la gran quantità di simboli e di richiami aveva già ampiamente chiarito – questo Reitano-Cristo è uno che dà fastidio poiché, pur non commettendo reati, è scomodo come chi crea confusione con il semplice avanzar dubbi, mettendo così in pericolo l’impalcatura (d’argilla?) sulla quale si reggono da sempre l’ordine e la sicurezza.
Salvatore Insana
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