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Cannibal ferox: l’ultimo cannibal movie di Umberto Lenzi

Segnali dall’universo digitale. Rubrica a cura di Francesco Lomuscio

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Recentemente riportato all’attenzione del grande pubblico attraverso The Green Inferno, diretto nel 2013 da Eli Roth, il famigerato filone dei cosiddetti cannibal movie godette del suo periodo di clamore tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo.

Infatti, raccontando nel 1977 la vicenda di un gruppo di persone che, atterrate nella giungla di Mindanao per una ricerca petrolifera, si ritrovavano ad avere a che fare con uomini rimasti all’età della pietra e dediti allo sgranocchiamento di carne umana, fu Ruggero Deodato ad aprire ufficialmente la strada al miscuglio di avventura e raccapriccianti immagini da horror tramite Ultimo mondo cannibale; sebbene, in realtà, già cinque anni prima fu Umberto Lenzi ad introdurre la formula ne Il paese del sesso selvaggio, chiaramente ispirato a Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein.

Un classico del cinema western, quello di Silverstein, che deve aver colpito non poco il cineasta originario della toscana Massa Marittima, in quanto ha poi avuto modo di omaggiarlo anche nella impressionante sequenza in cui Zora Kerowa viene sollevata da terra con degli uncini conficcati nei capezzoli in Cannibal ferox, datato 1981 e che, allora  bandito dalle sale cinematografiche di oltre trenta nazioni, viene riscoperto su supporto dvd da Mustang Entertainment (www.cgentertainment.it).

Messo in piedi un anno dopo Mangiati vivi!, si tratta del suo ultimo cannibal movie, nato praticamente sulla scia del più noto e osannato Cannibal holocaust deodatiano e mirato, proprio come esso, a ribadire che la violenza indigena è provocata, in verità, da quella dei bianchi, che dovrebbero essere civilizzati.

FrancescoLomuscio_Taxidrivers_Cannibal ferox_Lenzi_1Non a caso, il plot ruota attorno ad una studentessa dalle fattezze della Lorraine De Selle oggi produttrice televisiva (la fiction Carabinieri nel curriculum), la quale, in viaggio in Amazzonia insieme al fratello e ad un’amica per completare la sua tesi di laurea volta a mostrare che il cannibalismo non esiste, finisce con entrambi nelle grinfie di una tribù di indigeni, inferociti dalle sevizie subite da uno spacciatore newyorkese cui concede anima e corpo il Giovanni Lombardo Radice di Paura nella città dei morti viventi e La casa sperduta nel parco.

Un plot che, al di là del già citato sottotesto sociologico e di una sottotrama poliziesca di poco interesse, non funge altro che – come c’era da aspettarsi – da pretesto per portare in scena il campionario di nefandezze tipiche del genere e dell’exploitation in fotogrammi.

Nefandezze che, sorvolando sulle reali immagini di uccisioni di animali e di un anaconda impegnato a stritolare una povera bestiolina locale, spaziano con realistici effetti splatter da un occhio cavato ad uno scoperchiamento di cranio e cervello successivamente gustato dai selvaggi, passando per una esplicita evirazione.

Senza contare un momento con piranha e, ovviamente, sbudellamenti assortiti… nel corso di quasi un’ora e mezza di visione che, scandita da un buon ritmo grazie al serrato montaggio a cura di Enzo Meniconi, viene in questo caso accompagnata da un’intervista di sedici minuti alla sopra menzionata Kerowa nella sezione del disco riservata ai contenuti extra.

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