Sbarcata su Netflix nel 2016 e rinnovata quest’anno con una seconda stagione, Flaked si scopre nei suoi primi otto episodi raccontando le vicissitudini di Chip, ossia Will Arnett (Arrested Development, BoJack Horseman), riuscendo a narrare in modo convincente la vita di un alcolista, il suo rapporto con l’amico Dennis e con una ragazza di nome London.
Non ci sono eccessi, appare tutto molto velato ma è questo sottinteso a sviluppare una sensazione. E la sensazione è che vi sia un problema e non un che di giocoso su una simpatica canaglia che ne fa di cotte e di crude (come avviene ad esempio con il buon Hank Moody di Californication). Qui, nel vivere la quiete dopo la tempesta c’è, oltre all’alcolista, lo sguardo dell’altro. Quello sguardo che ti riversa addosso un sentirti l’insensibile, il pezzente, il bugiardo cronico. Tu vorresti spiegare ma la mente è debole e quindi ti limiti al dilazionare. Certo ci sarebbe il bisogno di difendersi, di difendere l’indifendibile ma nessuno se non un altro alcolizzato come te può capire che quel Tu è invece un Altro, un altro da sé portato all’estremo.
Ad un certo punto un personaggio osserva come nessuno sa scusarsi meglio di un alcolizzato e che proprio per questo è meglio non fidarsi dell’ennesima scusa. In un altro momento Chip parlando delle conseguenze delle sue sbronze dice “L’alcolizzato, non sono io. È un’altra persona”. Vi è una liberatoria verità in questi passaggi. C’è un qualcosa di vero che porta questa serie ad essere un sottile e fedele ritratto di un problema. Un problema con se stessi innanzitutto e di conseguenza con l’alcol. Non stupisce il sapere che Will Arnett, ideatore della serie assieme a Mark Chappell, ha infilato qua e là elementi biografici (il primo giorno di riprese è coinciso con il 15° anniversario della sobrietà di Will Arnett).
Peccato che poi Flaked non ha trovato il consenso che avrebbe meritato. Forse perché prevale l’immobilità, l’apatia e quel fastidiosissimo sole di Venice che sbuca sempre alle spalle della California più hipster. Eppure dietro un apparente apatia dell’intreccio c’è, a ben guardare, un racconto estremamente sofferto: si parla decentemente del problema dell’alcolismo senza quasi mai mostrarlo. Il tema dell’alcol è sempre presente nelle vicende dei personaggi ma non è sventolato in modo frivolo. L’alcol c’è, ci sono le menzogne, c’è il nascondersi, c’è il sotterfugio e l’egoismo e c’è soprattutto un alone di irrimediabile disperazione.
Flaked racconta “silenziosamente” l’anomalia. L’apparire di quel Terzo che è l’alcolismo e quindi un sé respinto. Il Terzo come protezione e come invasione violenta in sé stessi, come l’inaffidabilità. Oltre a questo, in particolar modo nella seconda stagione (più compatta ma anche più vera), emergono le problematiche profonde. Si parla spesso del tempo. Del passato che non si può e non si deve negare, dell’essere incastrati nelle vecchie dinamiche, dell’accettare quello che non si può cambiare, di ciò che si è e del prenderne finalmente atto. Ecco perché in una casa senza passato – da nascondere – si può creare il presente e quindi iniziare ad investire sul futuro. Ma per arrivare a questo bisogna affrontare un percorso di autocoscienza. Un percorso che non teme la solitudine ma la affronta senza menzogne.
L’alcol in tal senso assume un significato ben esplicitato: è il mezzo per il proprio sé ma allo stesso tempo il sabotaggio di sé. Paradossalmente ha una funziona, quella della presa di coscienza di un qualcosa che va al di là del bere, e tutta la seconda stagione abbraccia questa questione. L’abbraccia alleggerendo ogni tanto i drammi interiori con la figura di Cooler (personaggio molto simile al Todd di BoJack Horseman), l’amico nullafacente di Chip e Dennis. Poco valorizzata, Flaked andrebbe quindi riscoperta non pensando di trovarsi davanti ad una sciocca commedia e superando soprattutto la pessima sigla di apertura.