
Lo scorso 20 luglio il corpo senza vita di Chester Bennington, quarantunenne cantante dei Linkin Park, veniva rinvenuto nella sua abitazione di Palos Verdes nella contea di Los Angeles.
Fin da subito pare pressoché certo si tratti di suicidio. Bennington è solo l’ultimo di una lunga lista di musicisti di area rock che non ce l’hanno fatta, vuoi per la troppa pressione che il business impone, vuoi per il maledettismo che, almeno in parte, continua a dettar legge in fatto di rock and roll lifestyle.
Che tutto ciò sia accaduto proprio il giorno in cui Chris Cornell – il leader dei Soundgarden morto lo scorso 18 maggio in circostanze simili – avrebbe compiuto 53 anni, unito al fatto che i due cantanti fossero notoriamente amici, non fa che alimentare di oscuro fatalismo una triste tradizione che vuole che il talento troppo spesso si accompagni a un disagio che nemmeno il successo riesce a tenere al guinzaglio.

“You’re too old to lose it / Too young to choose it / Oh, no, no, no, you’re a rock n’roll suicide” cantava Bowie nel ’72 e, in effetti, nulla spiega meglio l’inquietante connessione, esistente più o meno da sempre, tra il patinato ed effimero mondo del rock e quello che, in maniera un po’ semplicistica, potremmo definire un vago istinto di morte. Nello specifico Rock n’Roll Suicide andava a chiudere The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars, lo straordinario concept album in cui il Duca Bianco rifletteva sulla parabola della celebrità attraverso un misterioso personaggio (lo Ziggy Stardust del titolo per l’appunto) che, nell’arco della narrazione, assurge a modello idealtipico di qualsiasi rockstar. La differenza tra David Bowie e una qualsiasi rockstar è che il primo, se non altro, ebbe la lungimiranza di “uccidere” il suo alter ego esclusivamente sul palco – in un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra entrato poi nella leggenda – svelando al pubblico la dimensione profondamente letteraria di quella fase della propria carriera mediante una scissione che ricorda molto da vicino quella tra Pinocchio e la sua ombra nell’emblematico epilogo – oltre che unico momento riuscito – del film che Roberto Benigni trasse nel 2002 dal capolavoro di Collodi.
Perché il senso di questa scia di morti illustri che da Ian Curtis dei Joy Division conduce fino a Chester Bennington forse riguarda davvero solo l’incapacità di taluni di separare in modo netto il personaggio pubblico da quello privato, finendo con il rimanere imprigionati in quello stesso mal de vivre che l’arte in realtà dovrebbe contribuire a canalizzare, se non proprio a esorcizzare. Così la storia della musica è piena zeppa di eroi talentuosissimi morti troppo presto, alcuni addirittura baciati dal favore del gruppo solo in forma postuma. Basti citare Kurt Cobain, l’artista che forse più di tutti incarna questo doloroso e apparentemente inscindibile connubio di angst e indubbio talento. Cobain, morto suicida all’apice del successo dei Nirvana con un colpo di fucile alla testa, è anche la prima vittima di quel movimento (un tempo noto come) Grunge che, tra la fine degli anni 80 e la prima metà dei ’90, prese tutta la rabbia generazionale ereditata dall’edonistico decennio che era lì lì per chiudersi e la trasformò, sotto debiti strati di chitarre distorte, in inni antemici di cui le major discografiche e l’allora fiorente MTV non tardarono a intuire l’appeal squisitamente commerciale. Dopo Cobain toccò infatti a Layne Stailey degli Alice in Chains, a Scott Weiland degli Stone Temple Pilots e, poco meno di tre mesi fa, a Cornell.

Ora, è ovvio che materiale iconicamente così denso faccia gola pure all’industria cinematografica che, tra documentari e biopic, da un lato sfrutta l’afflato tragico di queste vite bruciate, mentre, dall’altro, ne alimenta il portato leggendario. Il primato ce l’ha proprio Kurt Cobain con, all’attivo, ben tre documentari – l’apocrifo Kurt & Courtney del ‘98, About a Son del 2006 e il notevole Kurt Cobain: Montage of Heck diretto da Brett Morgen e uscito in sala un paio d’anni fa – e un Gus Van Sant a ripercorrerne i Last Days pur se in maniera non dichiarata. Ma anche il già citato Ian Curtis così come e Sid Vicious dei Sex Pistols sono stati nel tempo oggetti di operazioni similari, il primo con Control diretto da Anton Corbijn e il secondo con il ben più datato Sid & Nancy di Alex Cox, impreziosito da una delle più belle interpretazioni di sempre di Gary Oldman. Un po’ come se il pubblico avesse bisogno di veder distrutti i propri eroi prima di trasformarli in mito.