Una ragazzina in un bosco fitto di alberi è in cerca di funghi e trova un soldato nordista ferito. Presa da compassione lo aiuta e lo porta nel collegio diretto da Martha Farnsworth (Nicole Kidman) per farlo curare. Siamo in piena Guerra Civile Americana e il caporale John McBurney (Colin Farrell) si ritrova accudito da donne della parte avversa. Inizia così L’inganno, l’ultima fatica di Sofia Coppola che si cimenta nel remake del film La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel. Coppola, autrice anche della sceneggiatura, inizia bene con la metaforica rappresentazione di una favola sulla fascinazione (più che sull’inganno) dove una “cappuccetto rosso” incontra il lupo ferito nella foresta e lo porta all’interno della casa della nonna. E il ribaltamento tra il vero lupo, che approfitta delle poche donne e ragazze che sopravvivono alla guerra in un isolamento dorato e forzato, e le “pecorelle”, che si trasformano in spietate erinni, è un’idea forte, ma che purtroppo rimane abbozzata e male sviluppata.
La messa in scena de L’inganno ricorda pallidamente quella della opera prima della regista, Il giardino delle vergini suicide, fin dalla rappresentazione scenica della villa coloniale che appare molto simile alla casa delle sorelle Lisbon. Stranamente però Sofia Coppola non sfrutta appieno le potenzialità spaziali della casa, le sue oscurità, le labirintiche scale e stanze, anzi delimitandole nelle inquadrature che ne appiattiscono la visione. E anche la fotografia – scura e dai toni pastello – che vorrebbe dare una forma alla violenza inespressa delle donne nei confronti degli uomini, si riduce semplicemente a un buio pieno di ombre uniformi, attraversate da fasci di luce che donano un effetto flou a L’inganno a dire il vero molto datato, da film anni Ottanta e che rafforza l’appiattimento formale della pellicola.
Lo sviluppo drammaturgico risulta monco, abortito nelle improvvise e poco approfondite svolte psicologiche ed emotive dei personaggi femminili, resi eterei e inconsistenti da una sceneggiatura ridotta all’osso che, a forza di sottrazioni, arriva a un grado zero dell’empatia e del coinvolgimento dello spettatore. Un’immobilità che trasforma L’inganno in un’opera amorfa, con la macchina da presa che riprende la superficie della realtà senza mai riuscire a immergersi nella profondità delle cose (e resta alquanto sorprendente l’assegnazione del premio alla migliore regia all’ultimo Festival di Cannes).
L’Inganno doveva essere un esempio per Coppola di rinnovamento narrativo e di visione originale (da un punto di vista femminile) rispetto al precedente La notte brava del soldato Jonathan. Al contrario, si schianta contro l’opera di Don Siegel, perdendo il confronto, a questo punto dovuto, su tutta la linea. L’inganno risulta così etereo e fuggevole come uno di quei fasci di luce che illuminano il film, scomparendo al tramonto, così come si perde memoria del peggior film della Coppola appena si esce dalla sala cinematografica.