Piazza Roma nel centro storico di Benevento accoglie calorosamente Toni Servillo per la prima serata del Benevento Cinema e Televisione e lo fa con una clip che mostra una delle sue migliori interpretazioni, il monologo di Giulio Andreotti, sul bene e il male, ne Il Divo di Paolo Sorrentino (2008), che gli valse il David di Donatello, il Nastro D’Argento, il Golden Ciak e lo European Film Award for Best Actor.
Martina Riva, giornalista Sky, lo intervista di fronte ad un pubblico emozionato e incuriosito da un uomo, un attore, un professionista che nonostante il riconoscimento internazionale non dimentica le sue origini.
Gli esordi e il Teatro
Campano, nato ad Afragola in provincia di Napoli, Servillo conosce molto bene la città e il territorio di Benevento, che considera insieme a Napoli e a Salerno una delle perle campane. E ricorda con affetto di aver recitato al Cinema San Marco in un edizione del Benevento Città Spettacolo: era una trasposizione teatrale che lui insieme a Mario Martone avevano ideato del film Alphaville di Jean Luc Godard. In quell’occasione smontarono il cinema per fare in modo che il pubblico fosse al centro della sala, contornato di quattro palchi, in corrispondenza dei quattro punti cardinali.
Fu in quel momento che nacque Teatri Uniti, la compagnia teatrale fondata insieme a Martone e ad Antonio Neiwiller, con cui ancora oggi lavora e con il quale sta portando in tournèe un testo di Brigitte Jacques, Elvira, dedicato alla poetica dell’attore francese Louis Jouvet, trascrizione delle sette lezioni che l’attore, professore al Conservatoire, tenne tra il febbraio e il settembre del 1940, durante le quali Jouvet spiega ad una giovane allieva come rappresentare un’unica scena, quella dell’addio di Elvira nel Don Juan di Molière.
E cita proprio Louis Jouvet per spiegare al pubblico l’essenza del mestiere d’attore: “un’esecuzione chiede sempre uno sforzo. La tecnica che non viene dal sentimento crea banalità”.
Lo spettacolo, l’ultimo spettacolo teatrale sul mestiere d’attore, nasce proprio per comunicare ai giovani la nobiltà di questo mestiere, troppo spesso giustificato con gli abbagli del talento. “Ci vuole la dedizione, la rinuncia, altrimenti diventa un esercizio sterile di abilità”.
Ed è per questo che i suoi attori di riferimento, “dietro al magistero interpretativo ci comunicano il loro pensiero del mondo”; Eduardo De Filippo non ha mai separato la dimensione del recitare e l’impegno sociale nella sua vita, e ce l’ha trasmesso proprio attraverso le sue opere. Jouvet, altrettanto, ha dedicato la vita non soltanto alla recitazione, ma all’approfondimento della sua professione. E forse ha fatto un pezzo in più rispetto a De Filippo: se le lezioni di recitazione di Eduardo hanno una dimensione aneddotica, quelle di Jouvet sono una vera e propria opera scritta, costruita sera dopo sera in camerino, dopo aver recitato.
“Elvira è un testo che riconsegna al mestiere del recitare i suoi valori nobili e poetici, sottraendo la dimensione esibitoria e narcisistica”; e nel restituirgli invece la sua natura maieutica, fa sì che non sia soltanto l’allievo ad imparare ma anche il maestro, perché è insegnando che si impara ancora meglio.
“Il teatro deve far male”: non c’è nessun risultato senza uno sforzo. Servillo spiega questa sua affermazione guardando alla nostra epoca: “siamo vittime di anni in cui i modelli hanno offerto una via molto facile a chi si trova nella posizione di dover apprendere. Il livello del modello si è abbassato creando una dimensione di mediocrità che lascia intendere che tutto sia facilmente abbordabile”. Insiste infatti sul sacrificio e sullo spendere se stessi, sull’investire tempo e forze anche quando il risultato non è immediato, e anche passando per “il valore formativo del fallimento”. Oggi i giovani sono terrorizzati dal fallimento, e invece lo stesso Jouvet in queste sette lezioni mette l’allieva di fronte al fallimento e alla conseguente rinascita.
E continua mettendo in guardia dalle sirene di oggi, che ci fanno credere che tutti possano essere “re per un giorno”, insistendo sulla verifica quotidiana, sull’autocritica, che consente alla personalità di formarsi su basi solide.
Il rapporto con il teatro di Eduardo De Filippo si lega molto alla vecchia televisione, alla Rai come riferimento editoriale importante nella formazione culturale (e linguistica) del paese. Quando nel 1969 la Rai trasmise lo sceneggiato I Fratelli Karamazov diretto da Sandro Bolchi e tratto dal romanzo di Dostveskij, furono venticinque milioni gli italiani che lo seguirono (in un’epoca in cui c’era un solo canale).
Eduardo De Filippo ha creato un universo drammaturgico nel quale gli italiani dell’epoca si sono rispecchiati: Toni Servillo racconta di quando, ragazzino, era rapito dalle storie di “padri burberi e madri schizogene”, e vedeva intorno a se, stretto nel salone intorno alla televisione, quello stesso mondo di zii, padri, nonni, e in quel momento il mondo e il teatro si fondevano.
E’ un racconto affascinante, quello di un ragazzo che si rende conto piano piano che attraverso il teatro si possa pensare il mondo, non soltanto rappresentarlo, così come si possono scrivere poesie o suonare uno strumento; prima di rappresentare la realtà è necessario pensarla.
Il teatro di Eduardo De Filippo, così come quello di Goldoni, continuano ad essere apprezzati in tutto il mondo, in particolare De Filippo è stato accostato ai più grandi autori del Novecento: la maschera chapliniana e gli echi beckettiani vengono riconosciuti ancora oggi dal pubblico internazionale. Sabato Domenica e Lunedì è una commedia che parla al cuore delle nazioni che hanno nella famiglia gioie e disperazioni, e in fondo le aspettative del sabato, i mal di pancia della domenica e il ricominciare il lunedì sono stati d’animo che appartengono a qualsiasi luogo del mondo.
Il Teatro e il vissuto quotidiano
A parte il luogo comune che a Napoli esiste un “comportamento sociale recitato”, Napoli si avvale di una lingua che nasce per le arti sceniche, che di per se contiene e detta un comportamento, e che non ha la dimensione fredda della letteratura, ma nasce per essere performata, per essere agita. “Quando recito in napoletano, penso la battuta in napoletano così da riscaldarla, perché è materna, legata cioè alle prime espressioni della vita”.
Dal teatro al cinema: il lungo sodalizio con Mario Martone
Il regista Mario Martone è stato il primo a portare Toni Servillo sul grande schermo anche se per Servillo la “miglior cosa che abbiamo fatto è stata fondare Teatri Uniti” che nascevano dall’esperienza di tre teatri separati. Era un modo di fare teatro indipendente, interpretare produrre distribuire, facendo “impresa del nostro lavoro” e aprendosi a collaborazioni con altri mezzi di espressione.
Martone pensò che si poteva lavorare in questo modo anche con il cinema, prendendo spunto dall’esempio dei cineasti tedeschi come Fassbinder, Wenders e Herzog; lo stesso Fassbinder aveva realizzato per la televisione la mini serie Berlin Alexanderplatz, in Italia mandata in onda dalla Rai, (come tiene a sottolineare Toni Servillo, per ricordarci l’importanza che la vecchia televisione ha avuto nella formazione culturale degli italiani) e si circondava di un universo artistico molto composito fatto di pittori, musicisti, poeti. Morte di un matematico napoletano di Mario Martone fu la loro sfida verso il cinema indipendente, che aveva comunque avuto dei precedenti grazie a Salvatore Piscicelli e Antonio Capuano, ma il gruppo di Martone e Servillo fu capace di creare una vera e propria struttura, sia artistica che organizzativa.
Il giovane Sorrentino tra teatro e cinema
Fu dai Teatri Uniti che emerse un giovanissimo Paolo Sorrentino, che proprio grazie alla loro collaborazione realizzò il suo primo lungometraggio, L’Uomo in più (2001), che aveva come protagonista Toni Servillo (insieme ad Andrea Renzi).
La prima impressione che Sorrentino può dare è quella di sembrare svagato o distratto, ma in realtà è un uomo di una lucidità straordinaria, “un lavoratore instancabile”. E racconta di quando gli propose il ruolo di Tony Pisapia ne L’Uomo in più: Servillo stava preparando il suo primo Moliére, Il Misantropo, e prese quella sceneggiatura con un po’ di snobismo. Angelo Curti, socio dei Teatri Uniti, gli disse che l’avevano fatta leggere ad un altro attore. Questa fu la molla che lo portò a leggere la sceneggiatura tutto d’un fiato (anche perché il giovane Sorrentino già sapeva scrivere molto bene i dialoghi) e a scegliere quel ruolo per il quale “il regista ha ritenuto che io potessi mettermi sulle spalle la responsabilità di fare un protagonista”.
L’Uomo in più è un film che parla del fallimento di due uomini, il cantante neo melodico Tony Pisapia e l’ex calciatore aspirante allenatore Antonio Pisapia. Si annuncia già dalla sua opera prima un motivo ricorrente nel cinema di Sorrentino, personaggi prepotentemente al centro del film e molto spesso colti all’apice della carriera che poi subiscono una brusca caduta.
Nei lavori di Paolo Sorrentino c’è sempre stata una commistione tra cinema e teatro, come del resto in tutta la tradizione italiana. Gassman, Tognazzi, Volonté o Mastroianni hanno sempre continuato a fare teatro e cinema contemporaneamente.
Durante le riprese de Il Divo, per il monologo sullo stragismo, ricorda Servillo, ci furono al massimo 2 o 3 ciac. Sorrentino aveva ben chiaro come voleva l’interpretazione di Servillo e gli chiese di provare a recitare con lo stesso ritmo ostinato che aveva usato nel monologo di Rasoi di Mario Martone.
“Non ho mai considerato il teatro come un’anticamera del successo cinematografico. Il teatro è il luogo in cui posso relazionarmi con il mio mestiere, quotidianamente, intimamente e materialmente”. Su quest’ultimo punto sottolinea l’importanza del corpo, che lavora sul palcoscenico, che soffre e gioisce mescolandosi coi fatti della vita dell’uomo-attore e che deve necessariamente mantenersi sempre in salute.
La preparazione per Il Divo
L’ispirazione è partita da Todo Modo di Elio Petri, in cui si ritraeva la classe dirigente della Democrazia Cristiana, film esponente di un cinema italiano di impegno politico e sociale la cui tradizione è ancora oggi studiata in tutte le università del mondo.
Per costruire il suo Divo-Giulio Andreotti Toni Servillo ha guardato alle cronache realizzate dallo scrittore e giornalista Giorgio Manganelli per il Corriere della Sera: “nel descrivere i membri dello stato maggiore della DC che si alternavano sul palco, Manganelli parlava di uomini tra il curiale e il vedovile, che fecero breccia nella mia ispirazione.”
I suggerimenti per una strategia di attacco al personaggio vengono molto spesso dalla lettura delle vecchie cronache; con un personaggio come Giulio Andreotti, che quando il film venne girato era ancora vivo, si rischiava di appiattirlo sullo sterminato numero di imitazioni e caricature che circolavano da sempre.
Interpretare un personaggio realmente esistito è come “volare su una mongolfiera con tutte le zavorre attaccate”, è necessario giocare con il pubblico creando una sorpresa costante, e questo si lega molto allo sguardo che il regista ha di quel personaggio.
La Grande Bellezza
Gep Gambardella è un personaggio malinconico, che per ignavia si lascia alle spalle tante cose che avrebbe potuto vivere, ma che per indolenza e pigrizia restano delle occasioni mancate.
La Grande Bellezza è “un gigantesco affresco sugli anni facili che viviamo” e sulla disperata allegria di una città, che forse, seppur disperata, quell’allegria l’ha persa da un po’.
Il bello de La Grande Bellezza è stato nel sentire l’enorme credito che gli stranieri hanno nei confronti del nostro paese, della nostra cultura e del nostro cinema, e si dichiara molto orgoglioso di aver rappresentato degnamente l’Italia.
I giovani autori e il cinema di oggi.
Mario Martone è stato il primo regista a portare Toni Servillo sul grande schermo; Paolo Sorrentino e Andrea Molaioli (La ragazza del lago e Il gioiellino) hanno debuttato come registi con due film interpretati da Toni Servillo, e anche Matteo Garrone l’ha voluto in Gomorra. Toni Servillo crede nel talento degli emergenti, nell’atmosfera entusiasmante che si crea intorno a qualcosa di nuovo, con gioie mal di pancia e paure, è un entusiasmo, quello dell’opera prima, che non è mai lo stesso alla terza o quarta esperienza.
Il problema per chi si affaccia al mondo del cinema oggi è proporre il proprio progetto; “la mia generazione aveva delle istituzioni più attente, oggi dobbiamo dare una mano ai giovani” affinché le loro scelte coraggiose possano conferirgli il credito necessario per continuare a fare nuovi film.
Il 2008 si rivelò un anno importante per il cinema italiano perché porto alla ribalta sia Paolo Sorrentino che Matteo Garrone. In Gomorra Toni Servillo è Franco, che riceve un rifiuto da un giovane, che in un universo di desolazione dice no ad un sistema marcio; Franco è il più spregevole dei personaggi, che Garrone voleva con una simpatia e disinvoltura che dessero quella sensazione di sicurezza che hanno coloro che con il loro potere si sostituiscono allo stato, dando lavoro ai giovani.
I festival aiutano il cinema?
La risposta arriva dopo una pausa di silenzio, piuttosto eloquente. “Il festival aiuta se è un festival di arte cinematografica, si offre l’occasione ai registi che cercano strade originali e coraggiose di farsi conoscere. Non aiuta se si tratta di vetrine o mercati, che servono al narcisismo e alle trattative e vengono meno alla loro funzione principale di incoraggiare linguaggi nuovi”.
La tradizione dei festival del passato aveva proprio questo scopo, mentre oggi la “metastasi mercantile che danneggia la purezza e la natura di un festival” si è talmente espansa che si arriva addirittura a “confezionare” film appositamente per questo o quell’altro festival.
I festival migliori sono quelli che osano, e ribadisce quanto siano stati importanti proprio quelli che ci hanno fatto conoscere le cinematografie rumene, georgiane o iraniane, emerse proprio in queste rassegne.
Roberto Andò, il doppio e le confessioni
Nel film di Roberto Andò Viva la libertà (2012) Toni Servillo interpreta un politico che esce di scena. Il suo staff decide di sostituirlo con suo fratello gemello, vecchio professore di filosofia, appena uscito da un ospedale psichiatrico, e che con il suo comportamento gli fa riconquistare la credibilità sulla scena politica. In ruoli come questo è necessario usare espressioni del volto diverse, per differenziare i due personaggi interpretati da un unico attore. Era quindi un’occasione ghiotta per un uomo di teatro, quella di interpretare un doppio ruolo, così come quello di raccontare la politica attraverso la commedia. Nel film le scene del fratello professore sono state girate prima, per far nascere il gemello politico dalla costola dell’altro.
Sempre per Roberto Andò, Toni Servillo è un monaco, che incontra uomini potenti, padroni del mondo, durante un improbabile G8. Se è vero che “il cinema deve portare lo spettatore dove lo spettatore non andrebbe mai”, Le Confessioni (2016) aveva un interesse tematico forte perché un uomo potente, presidente del fondo monetario internazionale, che si sente il padrone del mondo incontra un uomo che invece crede che nulla gli appartenga.
L’importanza delle storie
Nella commedia di Francesco Amato, Lasciati andare (2017) ha recitato insieme a Luca Marinelli, con cui aveva già lavorato ne La Grande Bellezza, esponente di una giovane e ricchissima generazione di attrici e attori che molto spesso non hanno l’opportunità di mostrare il loro talento perché non ci sono storie adeguate.
L’importanza di una storia e di un cast che lavori con una cura maniacale per portare a casa un frammento di film: è questa concentrazione, sostiene Servillo, il risultato di un lavoro in cui è il regista a scegliere gli attori, senza sottovalutare, in nessun modo, i comprimari. E cita il regista Milos Forman: il regista è colui che è capace di scegliere e di mettere attorno a se persone migliori di lui.
Teatro Cinema Televisione
Se nel teatro è molto spesso lui a dirigere, come “un primo violino in un’orchestra d’archi”, dando la sua lettura del testo da rappresentare, al cinema gli piace affidarsi al regista, perché “il cinema è dei registi, il teatro è degli attori e la televisione è dei residui”.
Questa citazione di Marlon Brando chiude l’incontro con Toni Servillo che dichiara ancora una volta il suo amore per il teatro e per il cinema, poiché per le ragioni che portano alla nascita di un film o di uno spettacolo teatrale, “mi fido ancora di un buon film e di un buono spettacolo.”