In Black Butterfly Paul (Antonio Banderas) è uno scrittore fallito che sta cercando di scrivere una sceneggiatura e vive isolato da tutti e tutto in un cottage malridotto in una valle sperduta tra i boschi. Per puro caso, dopo un diverbio con un camionista, mentre è in locale del più vicino villaggio con l’agente immobiliare Laura (Piper Perabo), è assalito dallo stesso e viene salvato da un vagabondo, Jack (Jonathan Rhys-Meyers).
Questa la storia in poche parole di Black Butterfly diretto dall’attore Brian Goodman al suo secondo lavoro. Remake di un film televisivo francese Papillon Noir di Christian Faure, trasmesso nel 2008 su TF1, la pellicola è un teso thriller a incastro dove viene messa in scena la capacità mistificatoria del Cinema nelle sue diverse forme sia narrative sia spaziali.
In sottofondo, alla crisi creativa che affligge Paul, alle prese con difficoltà economiche – costretto a vendere la casa dove ha vissuto con la moglie che lo ha lasciato – e incapace di scrivere una nuova storia, abbiamo l’informazione di un serial killer che girovaga nei dintorni. Dopo essere stato salvato dall’aggressione del camionista, Paul ospita Jack per la notte. Il nuovo arrivato si offre di ricambiare l’ospitalità effettuando dei piccoli lavori di manutenzione, ma soprattutto incita Jack a scrivere dandogli suggerimenti sulla “vita reale”. Abbiamo così in Black Butterfly un sottile scontro psicologico tra i due personaggio, dove il secondo diventa sempre più ossessivo e persecutorio nei confronti del primo, attuando delle minacce e agguati più o meno velati per provocare lo scrittore a scrivere una storia il più verosimile possibile.
Già qui abbiamo una sorta di myse en abyme tra svolgimento filmico e scrittura della sceneggiatura all’interno della diegesi di Black Butterfly in una sovrapposizione dei nessi causali tra azione-reazione della relazione tra Paul e Jack. Lo sviluppo diegetico rende la forma narrativa ancora più complessa con un triplo twist. Lentamente lo scontro tra Paul e Jack si rende sempre più esplicito fino all’arrivo di Laura e in cui il punto di vista dello spettatore viene allineato con quello di Paul che tramite indizi più o meno evidenti scopre Jack come il serial killer che la polizia sta cercando. L’acme arriva verso il primo finale dove le apparenti certezze sono capovolte con la rivelazione che Paul è il serial killer e vuole utilizzare Jack come capro espiatorio.
Ma il secondo colpo di scena avviene in Black Butterfly con uno stacco e un risveglio in soggettiva di Paul, scopriamo che Jack, Laura e tutti quelli che abbiamo visto sono agenti del FBI che da giorni sorvegliano Paul per catturarlo. La realtà diventa soggettiva e quanto mai gli eventi narrati sono velocemente riscritti con flashback che mettono in scena un altro possibile film. Fino all’ultimo twist (che ovviamente non riveliamo), dove ancora una volta, in un triplo salto mortale narrativo, viene messo in discussione tutto ciò che si è visto fino in quel momento.
Il regista Brian Goodman con Black Butterfly riesce a costruire un meccanismo dove i pochi personaggi agiscono in uno spazio che all’apparenza sembra aperto – la valle, il cottage, i boschi, le strade – ma con una visione claustrofobica proprio per la macchina da presa incollata ai protagonisti. Oltretutto, il fatto che si utilizzi una location italiana per riprodurre uno scenario americano, rende l’architettura di Black Butterfly una profonda rappresentazione delle capacità illusorie della macchina cinema, dove il sogno, la realtà, la verosimiglianza e l’inganno scopico si accavallano per lo spettatore, però espresso in un modo chiaro e, alla fine, rivelatorio.
Con Black Butterfly siamo di fronte a un prodotto diretto in modo corretto, senza fronzoli né particolari ricerche stilistiche da Goodman con un trio di attori capaci di donare un certo interesse alle loro interpretazioni. Un film dall’impostazione teatrale, nella sua messa in scena, con pochi personaggi che agiscono in uno spazio ben definito, ma con una sceneggiatura scritta in modo intelligente (da Justin Stanley e Steve Hills) e che sostiene la tensione narrativa fino all’ultima inquadratura.