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Lady Macbeth di William Oldroyd: una sintesi di tutte le arti che il cinema può inglobare
Olroyd filma la storia della giovanissima protagonista di nome Katherine e costruisce l’azione drammatica (quindi il mito) della novella Lady Macbeth attraverso la sintesi di tutte le arti che il cinema può inglobare ed il rigore formale proveniente inequivocabilmente dal teatro
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8 anni agoon
Dubbiosa sull’andare a vedere un film che, stando al titolo, non presentava niente di nuovo, ho accettato la sfida (del tutto personale) di contemplare possibili conclusioni differenti e sono stata premiata.
Quante Lady Macbeth ci sono infatti nel mondo artistico dai tempi del loro illustre padre teatrale? Moltissime. Troppe. Data la potenza drammaturgica, sul palcoscenico e in pellicola, i risultati non sempre sono stati ammirevoli. Si pensi, ad esempio, al recente Macbeth interpretato dalla coppia Michael Fassbender-Marion Cotillard, corretto sul piano filologico, ma non in grado di eguagliare il precedente lavoro di Roman Polanski e l’omonima opera di partenza.
Certamente i sopracitati esempi non saranno gli ultimi, poiché il fascino della strage progressiva compiuta per il Potere è un tema universale, umano ed immortale.
La Lady Macbeth di cui sto scrivendo ha però un’origine fuori dai confini britannici: Shakespeare c’entra “soltanto” in merito al nome terribilmente avvincente utilizzato dallo scrittore russo Nicolaj Leskov per intitolare, nel 1865, il suo romanzo breve Lady Macbeth del Distretto di Mcensk. Già trasformato, nel 1934, in una celebre opera musicale da Dmitri Shostakovich, William Oldroyd (classe 1979) lo sceglie per il suo debutto dietro la cinepresa, conquistando il mondo a partire dall’ultima edizione del Torino Film Festival.
Il risultato filmico di Olroyd, uno dei maggiori registi teatrali inglesi, mi ha subito indotta a pensare al processo evolutivo da uomo di teatro a uomo di cinema, vissuto da Ėjzenštejn: gli spettacoli realizzati da quest’ultimo sul palcoscenico rappresentarono la prova generale per il suo transito dietro la macchina da presa. Da Mosca ascolti? a Maschera antigas, ad esempio, la recitazione attoriale fu sottoposta ad una regia già cinematografica oltre il limite del possibile, infatti i gesti degli attori assumevano il valore di immensi primi piani (un’espressione del volto, una mano che mostrava una lettera isolati dal resto riuscivano ad occupare un’intera scena) e, per usare icastiche espressioni di Sua Maestà, si decise, a buon diritto, non di sistemare un aratro di legno, bensì di sostituirlo con un trattore perché “il carro andò in pezzi e il carrettiere cadde nel cinematografo”.
Olroyd filma la storia della giovanissima protagonista di nome Katherine e costruisce l’azione drammatica (quindi il mito) della novella Lady Macbeth attraverso la sintesi di tutte le arti che il cinema può inglobare ed il rigore formale proveniente inequivocabilmente dal teatro.
Non a caso Florence Pugh alias Katherine, prima di esordire sullo schermo con The Falling di Carol Morley, ha calcato il palcoscenico come attrice teatrale e la sceneggiatrice del film, Alice Birch, è ritenuta uno dei maggiori talenti della drammaturgia inglese contemporanea.
Come annunciato in precedenza, la storia di sangue legata alla Lady Macbeth shakespeariana rappresenta, in merito al film, una trovata, diremmo oggi, pubblicitaria, per dare voce e corpo all’epos di una donna che, costretta ad un matrimonio di interesse con un uomo più grande ed impotente, si ribella alle norme sociali del piccolo malvagio mondo antico a cui appartiene poiché ‘acquistata’ dal marito insieme al terreno di cui è diventato proprietario. Reificata, sarebbe destinata ad esser condannata al silenzio, all’obbedienza completa, alla morte interiore se non scoprisse le gioie di una relazione clandestina con un uomo ‘vero’ capace di amarla e di darle piacere.
Attenzione. Non si tratta della storia di un’altra illustre Lady di cognome Chatterley, né di un’emulazione per sottomissione e sofferenza ad altri precedenti femminili della letteratura mondiale (Emma Bovary, Eugénie Grandet, Jane Eyre ecc…). Katherine ha un’arma che decreta la sua vittoria incondizionata: la Bellezza intesa come amore per la vita che la salva sempre e fino alla fine in una sequela di episodi in cui non soccombe perché ha energie a iosa per mentire, uccidere, tradire, escogitare piani, amare e continuare a respirare “fresh air”. In soccorso le viene un secolo, il XIX, che, per mancanza di mezzi adeguati a scoprire gli autori di crimini efferati unitamente alla rispettabilità della sua posizione sociale, impedisce di farla soccombere e di condurla a processo come unica sadica killer.
Sin dall’inizio della pellicola ci si accorge che tutto andrà bene, costi quel che costi, omicidio dopo omicidio (anche di un infante) e ci si sente in dovere di parteggiare per un’assassina seriale, una ragazza o meglio una bambina divenuta in fretta donna, vittima dei soprusi maschili, delle convenzioni, “murata viva” in casa…perché, da moglie, non le è consentito passeggiare in libertà nei suoi possedimenti e prendere un po’ di aria fresca.
In Katherine convivono Eros e Thanatos, due forze ancestrali che forgiano il suo carattere in maniera arguta ed intelligente: la sua opposizione comincia dalla caparbietà nella non reazione, la sua forza è nella pazienza, mettendo a tacere ogni intimo slancio impulsivo e violento di ribellione. La rivoluzione principale dentro e fuori di sé viene attuata quando in assenza del marito si innamora violentemente del proprio stalliere e lo possiede fino a portare nel suo grembo il frutto della loro colpa che il giovane, condannato per i crimini di lei, non vedrà mai.
Per mostrarci Katherine, i suoi sentimenti, la sua confusione e il suo punto di vista assunto verso lo squallido ambiente in cui è costretta a vivere, il regista sceglie un taglio teatrale usando la cinepresa “parzialmente” come l’occhio dello spettatore, che osserva i movimenti e i gesti di un attore sul palcoscenico e sa che la vita di quest’ultimo, nel breve tempo di una pièce, deve potersi costruire con pochi, ma efficaci elementi.
Olroyd filma principalmente le mani intrecciate prima dell’esecuzione di un piano, le labbra morse per l’impazienza e le posture, composte o meno di Katherine, per sedersi, poi si lascia andare ad inquadrature più tecniche, cinematograficamente parlando, onde includere gli altri personaggi e le loro azioni che servono a costruire il plot all’interno di un paesaggio severo e selvaggio, al tempo stesso.
Figlia della Natura, della brughiera, della violenza dell’acqua dei fiumi, il vitalismo di Katherine non può rimanere soffocato, pena la sua esistenza: il sapiente contrasto tra la sua vita come moglie sottomessa e quella come amante libera si traduce in immagini ruvide e passionali in cui soprattutto i costumi e l’ottima interpretazione della protagonista, dotata di un grande istinto attoriale e di una solida tecnica recitativa, ‘inquadrano’ perfettamente ciò che c’è da sapere sulla sua triste sorte.
Non occorrono effetti speciali: neanche la musica è chiamata ad incrementare la gamma dei pochi colori del film. Essa giunge soltanto nell’ultima scena trionfale a chiudere la composizione ad anello che fornisce un tocco di stupito, ma prevedibile, appagamento spettatoriale, proprio come quando a teatro si avverte che la pièce sta terminando e il corpo in poltrona riprende a sgranchirsi.
Si ritorna infatti con insistenza sulle crinoline, i corsetti, i capelli legati e il colore blu dell’abito che rendono Katherine non una donna, ma una “Madame”, ossia una signora sposata da cui si pretende un erede maschio per evitare la dispersione dell’eredità. Quando ormai tutti sanno della sua relazione con lo stalliere, il modo migliore per redarguirla e minacciarla è usare questo epiteto in cui sono racchiusi secoli di storia di soprusi verso il genere femminile. La Katherine vera ama portare sciolti i lunghi capelli rossi, non lavarsi se non ne ha voglia, indossare soltanto una vestaglia chiusa svogliatamente, mangiare quando lo desidera, dormire, nuda nel suo letto, ascoltare i suoni della natura (grazie alla madre morta conosce i nomi dei fiori, degli insetti e degli uccelli), sfidare il tempo che minaccia pioggia e un vento traditore apportatore di malanni.
Il costume (teatrale) assume così un ruolo di prim’ordine per svelar opportunamente quale protagonista vediamo sul grande schermo: anche durante la scena di apertura del film, la cerimonia del suo matrimonio non ha alcun valore; è il suo sguardo un po’ interdetto che ci guida. I suoi occhi su un ovale incorniciato dal velo bianco, tentano di intercettare e capire, voltandosi continuamente, il viso del futuro marito che presto l’abbandonerà per affari, lasciandola sola in balia del nulla e di una cameriera di colore, Anna, esecutrice presto colpita da mutismo (in reazione al primo omicidio commesso da Katherine) degli ordini ricevuti dall’alto (l’attrice, strepitosa, si chiama Naomi Ackie).
Il titolo del film campeggia proprio dopo aver definito la Weltanschaung che causa lo stato catalettico di Katherine: lei dorme sempre, di giorno e di notte, per non vedere, per fuggire allo squallore di esseri non belli. Per resistere.
Lo sconvolgimento più grande della sua vita arriva con l’ingresso del rude Sebastian immediatamente attratto da lei: i corpi comunicano prima ancora delle espressioni verbali, e infatti Katherine gli chiede se lui possa intuire il suo peso. Il ragazzo cerca di comprendere se ciò rappresenti un permesso accordato affinché “controlli” realmente. La ragazza non gli risponde affermativamente: tuttavia “try” scatena l’impulso dell’uomo a prenderla in braccio. Il passo verso l’inizio di una relazione sessuale e d’amore violenta e appassionata come ogni Amore merita di essere è breve…anzi immediata. Felici ed innamorati lei giura guardandolo negli occhi: «Finché sarò viva nulla mi separerà da te, Sebastian». Lui tace, ascolta turbato e non ricambia, infatti, vinto dai rimorsi e dai fantasmi di tutte le morti a cui ha preso parte, tenterà di accusare quella che definisce, a propria difesa, “la sua malattia”. Non vuoterà il sacco per attestare l’innocenza, ma per liberarsi di un amore al limite, che lo desidera ossessivamente e non lo lascia mai.
Il contatto fisico, cercato quasi con un gioco, segna, come già detto, l’inizio della tragedia in cui a respirare libera resta soltanto Lady Macbeth: non serve vestire da signore, usando gli abiti del marito, il giovane stalliere. Butterà alle ortiche la ricchezza raggiunta, soffocato dai sensi di colpa. Mostrare il cambiamento di quest’ultimo da servo a padrone è uno stratagemma teatrale a privilegio della sintesi richiesta dal palcoscenico e della tensione che mai si assopisce nel film, la cui durata è di poco più di un’ora.
Ancora teatrali sono le scene in cui Katherine si bea della luce che entra in casa quando, poiché il marito è lontano, spalanca la finestra da cui prima poteva soltanto affacciarsi: il linguaggio filmico, in senso stretto, avrebbe mostrato il ‘fuori’ inteso come fonte luminosa; Oldroyd rimane sul corpo della protagonista e sul suo volto gioioso in atto di assorbire energia e godere di una sensazione di benessere.
Le stesse scelte sono adottate per (non) mostrare gli omicidi del suocero, del bambino di colore, figlio naturale del marito Alexander e di quest’ultimo: nei primi due casi non vediamo una sola goccia di sangue, ma comprendiamo il sopraggiungere della morte da una maniglia che non si muove più (essa appartiene alla porta della camera in cui stramazza il vecchio Boris) e dalle gambe del piccolo ormai immobilizzate sotto una coperta (Sebastian le tiene ferme, mentre Katherine lo soffoca nel sonno con un cuscino). Nell’ultimo assassinio Katherine trionfa come una vera Lady Macbeth, e colpendo ripetutamente il consorte, fino a fracassargli il cranio, si macchia del maledetto sangue che proverà a lavare se non dopo aver ammazzato anche il cavallo di lui, fucilandolo nel bosco vicino alla sua dimora.
Importanza teatrale è data alla ripetizione, dall’alto valore simbolico, dell’immagine di Katherine mentre siede sul divano in occasione di decisioni determinanti per il prosieguo della storia: il taglio dell’inquadratura la rende protagonista assoluta insieme a pochi oggetti sullo sfondo e il blu dell’abito austero, rigido e ben poco allegro, fanno da viatico alle future funeste azioni in fase di progettazione. Sguardo in macchina mentre il cervello (Amleto docet) lavora, è impossibile non pensare alla scena di apertura di Arancia Meccanica di Kubrick. I contesti sono differenti, ma la tensione è la stessa, come lo sono le pulsioni sessuali, la rabbia, la frustrazione e la lotta contro qualcosa che si chiami noia o matrimonio forzato. Alla fine del film, sbarazzatasi di Sebastian, della servitù, dei pretendenti all’eredità, Katherine con un figlio dell’amore che presto metterà al mondo, torna a sedersi su quel divano da unica padrona di casa e della sua vita. A differenza del Macbeth shakespeariano, la donna trionfa e si suppone cominci da allora a godere di lunga vita. Anche se assassina impunita che non si ferma di fronte a nulla: in fondo combatte per sé stessa e per il nascituro addirittura contro l’unico uomo che ha amato reo di averla tradita.
A spezzare la studiata monotonia, c’è un buffo personaggio, attento osservatore della casa in cui vive. Si tratta di un gatto rosso dal pelo corto, mai legato direttamente alle azioni dei personaggi, fuoriuscito come da un quadro nordico e ripreso dalla camera a percorrere con la sua delicatezza e leggerezza brevi sentieri sui mobili, sulle suppellettili che arredano la casa-prigione dorata della protagonista. Si ride molto di questa presenza, come si fa nel quotidiano, malgrado le tragedie che la vita riserva. Quel passo felino, in punta di piedi, ci insegna non ad assolvere, ma a “vedere” e comprendere Lady Macbeth e tutte le omologhe, per antonomasia streghe e puttane, che la Storia dell’Umanità ha accolto o deve ancora censire.
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