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Benvenuti a ‘sti frocioni: la questione dell’omosessualità nel cinema italiano di genere

La figura dell’omosessuale è tipica nella rappresentazione iconica degli anni ’80, ovvero delle macchiette fini a se stesse, magari pure moleste e rompiscatole («froci», «checche» e «culattoni» erano gli appellativi più quotati) che non hanno altro da fare se non importunare il personaggio eterosessuale di turno

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Il documentario del giovane Andrea Meroni, Ne avete di finocchi in casa? – che verrà proiettato al 32° Lovers Film Festival di Torino – vuole indagare sulla questione rappresentativa delle persone omosessuali nel cinema italiano di genere. Un tema interessante che vuole essere nuovo punto di partenza per una riflessione in continuo sviluppo.

«…io mia amica Jane Fonda», «Sì, ma Jane Fonda non ha calcolato che c’è sempre di mezzo questo ricchioncello che mi tocca gli adduttori!». Così ha inizio Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983) di Sergio Martino. Siamo già verso metà anni Ottanta e il cinema bis sta iniziando a esalare gli ultimi respiri prima della vicina dipartita. Il dialogo riportato è tratto dalla prima scena, che vede Lino Banfi giostrarsi – durante un corso di aerobica – tra le grazie statuarie di Janet Agren e gli ammiccamenti di un gay vestito di viola: «Devi far lavorare gli adduttori!», dice quest’ultimo, trovando così un pretesto per palpare Banfi.

La figura dell’omosessuale in questione è tipica della rappresentazione iconica di quegli anni, ovvero delle macchiette fini a se stesse, magari pure moleste e rompiscatole («froci», «checche» e «culattoni» erano gli appellativi più quotati) che non hanno altro da fare se non importunare il personaggio eterosessuale di turno. Alla pari delle pingui zitellone incarnate da Franca Scagnetti, Fiammetta Baralla, Ermelinda De Felice, Francesca Romana Coluzzi.

Prima di passare ad alcuni casi dell’iconografia omosessuale nella commedia di genere, sarebbe meglio fare una piccola premessa sul piano storico dell’epoca. Gian Piero Brunetta, nella sua Guida alla storia del cinema italiano (Einaudi, 2003) afferma che: «Tra il 1975 e il 1985 si perdono quasi quattrocento milioni di spettatori e negli anni Novanta si passa sotto ai cento milioni di biglietti venduti l’anno. Negli stessi dieci anni, il numero degli schermi attivi tutto l’anno passa da 6500 a 3400 per scendere di altre mille unità nel quinquennio successivo. Quanto al numero di film prodotti, si passa, sempre nello stesso decennio, da 230 a 80».[1]

La questione dei numeri in calo e delle percentuali a ribasso è provocata (anche) dal violento ricambio generazionale di registi e autori della scena cinematografica italiana: «Nello stesso periodo, s’assiste a un ricambio generazionale ma le personalità che emergono – salvo poche eccezioni – non suscitano le stesse contrastanti passioni che hanno prodotto i padri nei decenni precedenti. I registi – nonostante proliferi lo spirito della produzione indipendente – forse non sono mai stati così soli e privi di punti di riferimento come in questi decenni».[2] E tutto ciò si ripercuote anche sulla questione della caratterizzazione omosessuale, come ha affermato lo stesso Meroni in un’intervista di Pasquale Quaranta su La Repubblica, le cui rappresentazioni tratteggiate in quel periodo non davano modo a un’identificazione positiva del personaggio con lo spettatore. Sfociando, così, in un risultato interpretativo di estrema piattezza bidimensionale.

Al di là dell’esempio iniziale si possono citare altri casi: Lello Riviera e Salvatore, i due personaggi interpretati da Aldo Reggiani ne La signora della domenica (1975) e Il gatto (1977), entrambi di Luigi Comencini, caratterizzazioni efebo-isteriche l’una complementare dell’altra e accomunate da una fine tragica, quasi atta alla surrogazione di un’epurazione sociale; il parrucchiere Gilbert interpretato dal mitico (ed etero) attore hard Harry Reems in Luna di miele in tre (1976) di Carlo Vanzina, che vede circuire un Renato Pozzetto interessato solo ai corpi di Stefania Casini e Kirsten Gille; ne La moglie in bianco… l’amante al pepe (1981, di Michele Massimo Tarantini) Lino Banfi combatte la presunta, poi confermata, omosessualità del figlio Javier Viñas con le armi seduttive di Pamela Prati; sempre Banfi nel già citato Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio viene a sua volta additato da Janet Agren come «ricchiònäh!» perché scoperto a letto con un narcotizzato Mario Scaccia; in Delitto al Blue Gay (1984, di Bruno Corbucci) Nico Giraldi alias Tomas Milian deve risolvere un caso di omicidio avvenuto all’interno di un locale gestito da drag queen: il film vede la partecipazione di Vinicio Diamanti, storica figura della scena LGBT romana.

Senza però tralasciare alcune caratterizzazioni che vertono al drammatico, registro che rimpiazzerà (quasi) definitivamente il macchiettismo a partire da fine Ottanta/inizio Novanta. Basti pensare al personaggio di Gino (Sergio Boccalatte) e ai femminielli de Le occasioni di Rosa (1981, di Salvatore Piscicelli); o al quadrilatero “aulico” Mariangela Melato-Eleonora Giorgi-Erland Josephson-David Pontremoli di Dimenticare Venezia (1979, di Franco Brusati); oppure, in questo caso parliamo omosessualità femminile tout court, l’ambigua Carla (interpretata da Elisabetta Valentini) in Night Club (1989, di Sergio Corbucci) che riesce a “strappare” da Massimo Wertmüller una procace ragazzona svedese, schernendolo proprio sulla sessualità: «Cosa puoi offrirle tu? Non hai altro che un cazzo moscio».

Questi sono solo un pugno dei numerosi casi che si possono riscontrare all’interno di quel cinema che stava vivendo due facce ufficialmente distanti (lo stesso Pozzetto ha interpretato diversi film che trattano, in maniera più o meno diretta, il tema dell’omosessualità: La patata bollente; Nessuno è perfetto; Grandi magazzini; Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande; Mani di fata; Sono fotogenico) ma ufficiosamente incastrate, come lo stesso Brunetta afferma: «La commedia, con questi film, cancella di colpo i vent’anni di sforzi per acquisire una legittimazione critica e culturale, ma è proprio il loro successo ad agire da laccio emostatico nei confronti dell’arresto dell’emorragia del pubblico popolare, che ritrova sullo schermo i corpi della belle ragazze e le barzellette da caserma da qualche anno quasi uscite di circolazione per la sparizione dell’avanspettacolo… Film che si occupano nel modo politicamente più scorretto – ma congruente con la visione del mondo di quel pubblico – dell’omosessualità, come dei problemi razziali, religiosi e politici. È da domandarsi se questo tipo di cinema abbia avuto veramente la forza benefica di smascherare la vuotezza del cinema pesudo-intellettuale, di mettere a nudo l’inconsistenza di quella critica superciliosa che è solita “pasteggiare con Antonioni e coricarsi con Bergman” – come sostenevano i suoi difensori – o se comunque racconti la deriva culturale e sociale d’un paese la cui crescita economica non corrisponde alla crescita ed evoluzione ideologica, sociale, culturale, sessuale, religiosa ecc.».[3]

Queste sono riflessioni che vedono via via sempre più interesse da parte di ricercatori, cineasti e dagli stessi attori sociali che hanno preso parte a questi film ormai quarant’anni fa.

Lo stesso Meroni, nell’intervista rilasciata a Quaranta, ha dichiarato che un lavoro come Ne avete di finocchi in casa? possa farci riflettere sul nostro passato e su come siamo diventati oggi: «Per me è stato bello attingere a quel repertorio di immagini per esercitare una mia ironia. Riguardare quei film oggi può insegnarci a ridere di noi stessi».[4]

[1] G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano. 1905-2003, Torino, Einaudi, p. 321.

[2] Ibidem, pp. 321-322.

[3]G. P. Brunetta, op. cit., p. 347.

[4] P. Quaranta, Gay al cinema, le macchiette della commedia: un doc racconta vent’anni di stereotipi, La Repubblica Spettacoli, http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2017/06/09/news/cinema_gay-167707469/, 11/6/2017.

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