Facciamo subito chiarezza: La cugina del prete non è un film erotico d’autore, come alcuni lo hanno velocemente etichettato, piuttosto un vero e proprio porno. Wes Craven, dopo l’esordio con l’osteggiato (all’epoca) e successivamente amatissimo L’ultima casa a sinistra (1972), poté fare grazie a questa pellicola una felice incursione in un genere che in quegli anni aveva cominciato a diffondersi negli USA, attirando l’attenzione del pubblico e della critica, e, dunque, sdoganandosi.
La cugina del prete: la realizzazione
Angela (Jennifer Jordan), la protagonista, vive un tumultuoso e passionale rapporto con il cugino Pete (Eric Edwards, ex attore pornografico statunitense), e Craven non ci va per il sottile mostrandoci le loro effusioni amorose, fatte di penetrazioni, fellatio, orgasmi, con annessa tutta l’iconografia del caso. Il regista è abile ad instillare un senso di angoscia che pervade l’intero film, in riferimento alle vicende della protagonista, la quale, dopo aver subito l’abbandono del cugino, che in preda al senso di colpa per il loro rapporto peccaminoso si è fatto prete, si lascia andare ad una fitta serie di eccessi sessuali, precipitando in un abisso di promiscuità e senso di colpa.
Le intenzioni
Il montaggio a tratti non naturalistico (eseguito dallo stesso Craven con lo pseudonimo di Abe Snake) dona all’insieme un’atmosfera spettrale, andando, in un certo senso, contro quella cultura libertaria che negli anni settanta aveva trovato il proprio apogeo. È come se il regista vivesse un rapporto di ambiguità dialettica nei confronti della sessualità, alla quale si approccia in maniera curiosa, morbosa, non esente da una certa quota di sadismo, laddove Angela è preda di numerosi abusi, non ha un vero rapporto con i partner, ma ne subisce gli smodati appetiti.
A questo proposito è da segnalare la violentissima sequenza dello stupro, in cui la protagonista viene posseduta da un energumeno, distesa sopra un banco di ghiaccio all’interno di una pescheria a ridosso sul mare. La sofferenza che trapela dal volto della vittima davvero scuote chi guarda, e, ancora una volta, ci segnala quanto la visione di Craven del sesso, e più in generale del rapporto con l’altro, sia segnata da un’atavica sfiducia, sebbene il film, nel suo complesso, costituisca proprio l’occasione per l’autore per sviluppare una sintesi attraverso cui guadagnare uno sguardo nuovo, finalmente liberato da condizionamenti esterni, attraverso cui porsi nei confronti della questione affrontata.
Un’indagine che passa per le dinamiche sessuali
Il titolo originale del film, The Fireworks Woman, esprime uno stato di vitalità disperata che, se non contenuta, non canalizzata, può dare adito ad amare sorprese. L’uomo dei fuochi d’artificio, Nicholas Burns, interpretato dallo stesso Craven, simboleggia una dimensione della vita in cui non è ancora penetrato un ordine etico che permetta di evitare di lasciarsi risucchiare senza attrito dalla fatalità del destino.
Ecco allora, che se pur fortemente pornografico, La cugina del prete utilizza l’iconografia sessuale per indagare le dinamiche dei rapporti, cercando davvero di realizzare una sintesi tra gli eccessi di Angela, vittima di una realtà che non concede sconti, e la ritirata un po’ vigliacca di Pete, fuggito da se stesso indossando i panni di un patetico pretino. Si tratta di saper stare al mondo, senza retorica, né buonismo, muovendosi in maniera opportuna, rispettando, verrebbe da dire, le leggi naturali da sempre operative.
Quel rito orgiastico iniziale, in cui vediamo molti giovani denudati prodursi in canti, balli e quant’altro, mossi presumibilmente dal desiderio di conquistare un’agognata liberazione, necessita, crediamo, secondo il regista, di una correzione: non si può, sull’onda di un entusiasmo effimero, lasciarsi sedurre dalla lascivia di un’esistenza senza più riferimenti, quanto, invece, sviluppare una propria visione, per non perdere di vista l’altro, che, altrimenti, rischia di divenire la trascurabile appendice di noi stessi.