Maria per Roma, opera prima di Karen di Porto presentata allo scorso Festival di Roma, è una pellicola femminile, intima, malinconica, agrodolce e stralunata, capace di cogliere in modo immediato l’ambivalenza di una città unica, irraggiungibile.
La regista, interprete principale del pezzo di vita in cui ci immergiamo, è una Amélie all’italiana. Sognatrice e romantica, vive la città eterna in groppa al suo motorino dal cestino di paglia, tra check in e check out nel centro storico come key holder di appartamenti bellissimi per turisti, tappe al piccolo teatro sperimentale, pose fuggevoli per cortometraggi, in attesa dell’esito di un provino nel ruolo da protagonista di un film, che le farebbe finalmente svoltare la vita.
Il sottobosco umano che la circonda è una vera fauna strampalata: in primis la sua cagnetta Bea (un Jack Russell puro di 14 anni, che tutti confondono con un bastardino per il musetto lungo lungo, cardiopatica, che non può stressarsi), il coatto e buono datore di lavoro, la madre antiquaria costretta a svuotare tutto per via della crisi, il padre angelo custode, gli amici teatranti, Cesare-Gesù il principe azzurro artista che vive per strada e si mangia le polpette che sua madre gli prepara… I turisti spaesati, bizzarri e non, insieme agli altrettanti ‘folli’ proprietari delle case del centro storico.
Dentro e contemporaneamente Roma, catturata sapientemente nella sua autentica bellezza di luogo inafferrabile, di spazio più metafisico che reale, nel quale come ombre i protagonisti di Maria per Roma si muovono tentando di resistere invano alla sua indifferenza, alla sua implacabile verità. La meta dell’attrice è sempre più una labile illusione di resistenza all’unica vita che Roma permette: incerta, altalenante, beffarda nei sogni perseguiti, nell’ideale di vivere come si vuole essere. Nel film, la città eterna pare sussurrarci proprio questo: si può restare solo ai margini, come i barboni ed i turisti, guardarla da lontano, possederla veramente mai.
Karen di Porto realizza con pochi mezzi un piccolo gioiellino visivo autobiografico, semplice e profondo insieme, con echi di poesia bressoniana (il Gesù-Cesare ne è emblema pieno), potente quanto un urlo pur se appena sussurra, danza… Di una dolcezza tagliente, di una piena umanità, capace di identificare tutti quelli che vivono e combattono invano portandosi dietro i propri sogni nel mostro seducente e terribile che è la nostra Capitale.