Siamo già alla terza serie di Better call Saul, spin-off di Breaking Bad, e si può dire con certezza ormai che, dalla prima ad ora, è riuscito a conquistarsi un’autonomia tutta sua (da poco è stata annunciata l’uscita della nuova stagione prevista per il prossimo anno). Il personaggio di Saul Goodman compare in Breaking Bad come un avvocato senza scrupoli (sempre sopra le righe, con le sue mise sgargianti e improponibili) al quale si rivolge un’umanità varia, compresi Walter White e Jesse Pinkman, i soci che producono metanfetamina. Lo slogan che si è scelto, Better call Saul, lo rappresenta in pieno: meglio chiamare Saul quando sei nei pasticci, quando c’è da sporcarsi le mani, nascondere il denaro, fuggire dagli inseguitori.
Nel prequel Saul è Jimmy McGill, avvocatucolo che vive di piccoli imbrogli, dorme nel retro di un centro estetico gestito da donne orientali che lo trattano con sufficienza, è invaghito di Kim, avvocato come lui, ma di maggiori speranze.
Il racconto procede su temi sviluppati sapientemente dal regista Peter Gilligam e ci fa pensare che il lavoro sia studiato nella scrittura con molta cura, come avviene nelle serie migliori.
Il primo e più importante riguarda la difficile quotidianità di Jimmy, insieme ai suoi tentativi spesso falliti per rimanere a galla. E mentre lui cerca un ruolo nel mondo, il suo personaggio prende via via spessore, dietro la maschera di strafottenza con la quale lo abbiamo conosciuto. In fondo Jimmy è un uomo fragile, vittima di un fratello maggiore che quel ruolo non gliel’ha voluto riconoscere un tempo ed ora vuole negarglielo con più ostinazione, nonostante l’età. Un’età che non ha portato saggezza, se ancora Chuck vuole far pagare a Jimmy il fatto di essere nato, di aver avuto più attenzioni materne, benché fosse così poco responsabile. E’ una malattia inguaribile, la sua, molto più dell’elettrosensibilità, che lo costringe a vivere in casa, riparato da ogni campo magnetico.
A nulla vale che Jimmy si prenda cura di lui tutti i giorni, ne assecondi le stramberie, lo protegga dal suo stesso male e dagli altri. Chuck, avvocato di grido, impegna tutte le sue energie, non solo a difendersi dalle luci e dalle radiazioni, ma soprattutto dalla minaccia che più lo distrugge: quella che il fratello possa rubargli il posto, come da piccoli in famiglia. Paura irragionevole, perché se conoscesse Jimmy come noi lo stiamo conoscendo, saprebbe che non è attratto dai ruoli prestigiosi, tanto che quando inaspettatamente gliene viene proposto uno, fa di tutto per perderlo.
E poi ci sono il personaggio e il passato di Mike, che abbiamo visto per tutta la durata di Breaking Bad come ambiguo collaboratore di Gustavo Fring, gestore della catena Los Pollos Hermanos (curiosità: a Roma e a Milano sono stati aperti due fast food, Los Pollos Hermanos, bisognerà farci una visita). Gus è, insieme a Hector Salamanca, il cattivo cattivo. Piace vederli comparire qui, e stabilire un’antecedente continuità con la serie che tanto abbiamo amato, piace vedere che gli intrighi si risolvono, le matasse si dipanano.
L’intreccio affascina di sicuro un pubblico eterogeneo, anche giovane, mentre la psicologica del personaggio soddisfa le esigenze degli spettatori più adulti. Insomma, il passaggio tra Jimmy e Saul, inserito in colpi di scena nuovi, ma che hanno un che di familiare, è il punto di forza di questa serie, che, come Breaking Bad risponde al quesito di come si possa diventare cattivi (o parecchio cinici), se gli altri o le situazioni ce lo chiedono