“Tutto intorno a noi, il mondo, e noi, nel suo mezzo, cieco.”
Michael Haneke
Il Festival di Cannes e il suo concorso finalmente si accendono con la corposa presenza del cinema di Michael Haneke. Amatissimo qui e a ragione assoluta, dopo la Palma d’Oro più ‘intima’ di Amour (2012), in Happy End Haneke riprende il suo indefesso e accusatorio dialogo con la borghesia, l’Occidente e la sua nuova generazione. Con se stesso e noi stessi.
Lo spietato e sadico voyerismo tecnologico di uno smartphone ci immerge immediatamente nell’asettico universo globale e connesso, spaventosamente colmo di vuoto e solitudine, privo di sentimenti ed emozioni reali. Il ponte ideale delle dinamiche dei membri della famiglia Laurent a cui accediamo subito dopo: Anne-Isabelle Huppert, il capofamiglia, donna e uomo insieme, la più irreprensibile nella sua disumanità fredda, elegante, compassionevolmente impietosa, che esterna con naturalezza nel dirigere la sua impresa e la grande famiglia. Un mostro. Come lo sono tutti gli altri: il fratello Thomas e la sua seconda moglie/neo madre Anaïs, il loro vecchio padre Georges-Jean-Louis Trintignant, il figlio di Anne, Pierre. La cittadina di Calais, e il simbolo che oggi è diventata per la vergogna migratoria, li contiene. Ma è come se vivessero altrove, nel loro universo protetto, individuale ed autoreferenziale. Nella vita della famiglia Laurent si affaccia la piccola Eve: la 13enne figlia di Thomas, che la porta a vivere con sé per le gravi condizioni di salute della sua prima moglie: irreversibilmente intossicata… Suicidio… Ancora non è chiaro, ma è tutto molto grave e serio.
Con la sua sublime e chirurgica introspezione, che ha come perno e fulcro l’immagine, spietata, cruda, cinica e mai innocente (meno che mai adesso, catturata e riprodotta oggi da ogni dispositivo elettronico e manipolata a proprio piacimento, a propria immagine e somiglianza dentro una nuova e aberrante alienazione), Haneke rivolta i mostri nelle loro maschere, li denuda sapientemente incollato al filo sottile dell’ambiguità, della contraddizione. Nessuno è escluso da questa autopsia, a cominciare dal capo stirpe Georges, abbandonato dalla memoria, stanco di una fine che non arriva, incapace di darsi la morte da solo, alla ricerca di complici cinicamente e inutilmente assoldati tra potenziali proletari nella promessa di una rendita in cambio. Thomas, dissociato e confinato nelle sue perversioni dentro una relazione extraconiugale tra realtà e virtualità, Pierre figlio di famiglia immaturo, pieno di limiti ed insicurezze, intrappolato in una vita che non può gestire in piena libertà e superiorità di classe da esternare senza filtri. E la piccola Eve, inquietante mostro in fieri, prodotto innocente della nostra cultura e società: galleggia dentro il bene e il male senza emozioni e pietà, unendoli, confondendoli. Il nonno Georges le passa idealmente il testimone del suo “happy end” e lei lo fissa implacabile e immobile, filmandolo con il suo smartphone. Questa volta Haneke non riesce a tenere tutto sotto controllo, qualche personaggio gli sfugge di mano e si perde, il dubbio che il tutto segua ad Amour lo fa dichiarare a Georges esplicitamente. Resta, innegabile, la forza visiva di Happy End e il non sense di un mondo sempre più lacerato, egoista e cieco.
Maria Cera