Ultimo lungometraggio del regista, realizzato grazie al contributo della TV svedese (il film era per la televisione), Parade (1974) è uno dei film più significativi di Jacques Tati.
Il circo e il corpo
Nel film, il circo, dove è ambientata l’intera azione, diviene uno spazio avvolgente, circolare, all’interno del quale decade magnificamente la soglia che separa il versante della fruizione da quello dell’autore. Tati, col suo corpo dinoccolato, diviene una sorta di ‘mediatore evanescente’, il passepartout che consente di fluttuare all’interno di un nastro di Möbius, in cui l’immobilità dialettica della rappresentazione decade di fronte all’immanenza di un movimento che non cessa. E, dunque, il pubblico non solo viene invitato a partecipare interattivamente allo spettacolo, ma diviene esso stesso spettacolo, alternandosi fruttuosamente nell’esecuzione di vari numeri.
Tati insiste molto sul superamento dei limiti spaziali e temporali, lo vediamo muoversi dentro e fuori dal circo, dietro le quinte, è ovunque, l’opera non è più localizzabile (abrogando in tal modo la vetusta logica museale), lo sguardo è convocato a cambiare continuamente prospettiva, di più, il soggetto sprofonda nell’oggetto, in un processo in cui si abdica al tipico atteggiamento intenzionale in favore di un abbandono tramite cui fare esperienza di un altro tempo, un tempo emotivo, una durata, e, per tal motivo, chi ha partecipato a un siffatto Evento non può, a rigore, riferire a posteriori ciò di cui è stato ‘spettautore’.
Parade, un’opera testamentaria
Parade, in questo senso, è l’opera-testamento di Tati, un saggio raffinatissimo, in cui il celebre attore, al culmine della sua esperienza, può, finalmente, retrocedere dalla rappresentazione alla presentazione, evitando quel processo di sur-codificazione che immobilizza ciò che per sua natura dovrebbe essere lasciato libero di fluire.
In barba all’adagio del ‘quieta non movere’, Tati innesca un movimento che contesta il ‘potere dell’autore’ in favore della ‘potenza comunitaria’, in cui ciascuno, col proprio attivo apporto, può emettere quel giudizio riflettente (kantiano) che ha pretesa di universalità (pretesa individuale che è una speranza comunitaria, sia ben inteso; se così non fosse, sarebbe come, mutuando una felice espressione di un collega, ‘obbligare ciascuno ad andare in paradiso’). Altrimenti il rischio è quello di ricadere nella tediosa consuetudine del giudizio di gusto, che condanna chi lo esprime a fluttuare nella vacuità del relativismo imperante, delegando all’odiosa economicizzazione del mercato il compito di stabilire il valore di un’opera.
Il gioco di Parade
Ma, al di là di queste considerazioni, che individuano la grandezza di Parade, consegnandolo senza dubbio alla Storia del Grande Cinema (e, va da sé, della Grande Arte, che è rara), il film di Tati è puro gioco, uno zampillare continuo di materiale vivo, il che conferma quanto l’essenza della recitazione consista nella messa tra parantesi del linguaggio, laddove l’autorità del significato svanisce di fronte all’autorevolezza del significante: cessano i dialoghi, il corpo scompare, ciò che rimane è quella gioiosa e al tempo stesso malinconica melodia-marcetta del circo, che ci impone di seguitare, di perseverare, di rendere l’entusiasmo costante, a scapito dell’ineluttabilità della tipica ricaduta maniacale (in altre parole, la sinusoide esistenziale) che ci consegna alla fatalità di un destino che, invece, si potrebbe e si dovrebbe scampare, magari con il sorriso, quasi incuranti, in quanto troppo occupati a partecipare alla festa della vita.
Luca Biscontini