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“Alien: Covenant”: l’ultimo capitolo della saga fanta-horror firmata Ridley Scott

Alien: Covenant è il capitolo della saga fantascientifica firmata nel lontano 1979 da Ridley Scott. Dopo il successo di Prometheus, il regista torna in cabina di regia e firma una pellicola osmotica e coinvolgente, interpretata da un Michael Fassbender in splendida forma fisica e mentale

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Vi riproponiamo la recensione di Alien: Covenant, recentemente pubblicato su Netflix.

Un film, molti registi

Era il 1979 quando Ridley Scott firmava Alien, un prodotto fantascientifico di alta levatura destinato a divenire non soltanto un film di culto ma anche il prototipo di un genere multiforme e mutaforma.  Numerosi sono stati infatti i suoi sequel, affidati a registi variegati – da James Cameron a Paul W.S. Anderson passando per David Fincher e Jean-Pierre Jeunet  – che hanno lentamente trasformato la storia originale in una arguta disquisizione filosofica sul significato di “alieno”. Nonostante il dibattito tra chi sosteneva che l’alieno fosse il diverso e chi preferiva invece utilizzarlo come aggettivo per indicare lo straniero in senso lato, il punto focale della questione è sempre rimasto lo stesso: l’essere umano è la creatura più fragile e imperfetta che esista in tutto l’universo. Debole nel corpo e limitato nella mente, egli ha creato androidi simili agli umani ma di gran lunga superiori nelle potenzialità. Queste, hanno presto preso il sopravvento sui loro creatori.

Alien e le contaminazioni con Blade Runner

Sorta di profeti prometeici di larghe vedute e signori supremi di regni distopici, gli androidi sono diventati i veri protagonisti del racconto. Troppo spietati per essere umani ma troppo umanizzati per essere semplici prodotti tecnologici. Meri ibridi impazziti, imitano gli dei come lo shelleyiano dottor Frankenstein e riducono gli uomini a banale materia prima, misero contenitore per i parassiti di una nuova popolazione. Nutrendosi di quella materia primordiale, vogliono migliorarla e sostituire ogni essere vivente con cloni perfetti, forti e intellettualmente evoluti. Più cattivi perché più consapevoli del proprio potenziale, gli alieni si ergono a guardiani di una necropoli patogena. Auto-proclamati re infernali, piuttosto che vassalli celesti. Baccelli di una nuova specie designata a riscrivere la Storia.

 

Rispetto alle pellicole originali, Alien è divenuto un prodotto meno orrorifico ma più votato alla componente thriller e fantascientifica in perfetto stile Blade Runner. Attraverso scambi di ruolo, di persona e di personaggi, Ridley Scott introduce un nuovo tassello nella vicenda: alla lenta carneficina delle vittime e alla camaleontica capacità del villain di camuffare il proprio aspetto. Si aggiunge un’inesorabile evoluzione della creatura, più razionale, più algida, più famelica.

Il verdetto finale

La mastodontica mano registica di Scott c’è, si vede e si sente, confermandosi il machiavellico burattinaio delle azioni, il demiurgo funambolico dell’evoluzione narrativa e il sobrio stratega dello stile ante litteram. Contornato da sceneggiatori del calibro di Michael Green (Logan), Jack Paglen (Trascendence) e John Logan (007 Spectre), Scott estrae una precisa carta dal mazzo e la nasconde in attesa di rivelarci il suo asso nella manica. Avvertendoci che “basta una sola nota stonata per distruggere la sinfonia”, al termine di Alien: Covenant, lo spettatore finisce davvero per domandarsi se l’alieno sia chi guarda o chi è guardato.  

Martina Calcabrini

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