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‘È solo la fine del mondo’: il toccante film di Xavier Dolan

Piace di È solo la fine del mondo il mutamento di tono di Dolan, che riesce a guardarsi dentro, isolandosi dal trambusto di ciò che lo circonda; il mondo citato nel titolo finisce, e con esso il linguaggio, e allora si tratta di svanire ancora prima di esser scomparsi, di ridursi, in altre parole, di congedarsi con pudore, con dignità

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È solo la fine del mondo è attualmente disponibile su Tim Vision.

Louis-Jean Knipper (Gaspard Ulliel) è un artista, un autore teatrale, che, afflitto da una malattia che lo sta conducendo velocemente alla morte, decide di fare visita alla famiglia che ha abbandonato dodici anni prima, per informarla del suo precario stato di salute, mosso, presumiamo, dall’intento di riconciliarsi con essa.

Il cambio di registro

Questa, in breve, la trama toccante film di Xavier Dolan, È solo la fine del mondo, il quale, ad una prima e superficiale visione, potrebbe risultare meno coinvolgente del traboccante Mommy, in cui un tumultuoso e commovente rapporto madre-figlio colpiva fortemente lo spettatore in un susseguirsi di emozioni senza sosta. Ma Dolan, stavolta, decide di cambiare registro, o meglio di mettere in scena l’evoluzione di quella storia, laddove al delirio e agli strepiti di Steve O’Connor Després (Antoine Olivier Pilon) consegue il mutismo e l’afasia di Louis, il quale, sfiorato dal gelido tocco della morte, retrocede a uno stadio prelinguistico: non parla praticamente mai, quasi balbetta, di fronte alla frastornante confusione di una famiglia completamente immersa nelle scialbe dinamiche nevrotiche di una quotidianità trascurabile.

A questo mediocre teatro dell’Io il protagonista non vuole partecipare, preferisce rimane a latere, ma non nel ruolo di regista (perché in tal modo colluderebbe) e neanche in quello di spettatore; è semplicemente assente, contratto com’è in una morsa di dolore che lo attanaglia, anzi, mutuando il gergo del maestro Carmelo Bene, è un presente-assente; diserta la parata cui suo malgrado assiste, e si espone eroicamente alle richieste incessanti dei suoi famigliari, i quali, anziché supportarlo, gli chiedono di assumere il ruolo simbolico di un pater familias da sempre mancato.

Ma Louis non può, e non vuole, assumere una posizione di potere, egli, semmai, incarna la potenza, quella creativa, che gli ha consentito di produrre le opere che lo hanno reso celebre. Trascinato in battibecchi sterili, in cui ciascuno tenta di elaborare istantaneamente un passato cupo che incombe, Louis pare un santo, come Giuseppe Desa da Copertino, sul punto di spiccare il volo, a bocca aperta, come gli idioti (quelli che hanno dis-imparato, si intende).

Il mutamento di tono

Piace, allora, di È solo la fine del mondo il mutamento di tono di Dolan, che riesce a guardarsi dentro, isolandosi dal trambusto di ciò che lo circonda; il mondo citato nel titolo finisce, e con esso il linguaggio, e allora si tratta di svanire ancora prima di esser scomparsi, di ridursi, di divenire infinitamente piccoli, in altre parole, di congedarsi con pudore, con dignità. Da soli, perché nessuno può testimoniare se l’accoglienza nostra e degli altri possa davvero fornire una compagnia nell’ultimo istante.

È una speranza, cui, però, non dobbiamo smettere di essere fedeli. Il finale pittoresco del film (che ovviamente non sveliamo) pone senz’altro un punto interrogativo, e non ci soffermeremo in questa occasione a fornire (non ne saremmo titolati) un’interpretazione psicanalitica, che pure non sarebbe difficile offrire. Piuttosto a quella morte (apparente: è davvero una morte?) ci piacerebbe seguisse una resurrezione, una seconda possibilità, una trasfigurazione che riformi l’ordine simbolico, aprendo nuovi orizzonti di comprensione.

Questo è il compito della grande Arte, deformare la realtà, svelando nuovi spazi da percorrere, dando luogo finanche a inediti itinerari etici. Crediamo, a tal proposito, che Dolan abbia un vero grande talento, e che sarà capace in futuro di compiere quel gesto radicale attraverso cui disfarsi della rappresentazione, facendo segno a un fuori campo in cui vige un’altra e più sostenibile temporalità. Con È la fine del mondo Dolan si è pericolosamente avvicinato alla soglia, ma c’è ancora troppo dolore in lui: è un grande artista, ma non un genio (così Salvador Dalì rimprovera Carmelo Bene, quando quest’ultimo, agli inizi della sua carriera, si doleva della scarsa attenzione riservata al suo teatro). Ma siamo fiduciosi che non mancherà di compiere il salto.

 

Luca Biscontini

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