Direi in due modi: primariamente, nel darmi un mestiere e una certa praticità. Mi rendo conto che sinceramente sul set riesco a gestire le cose con tranquillità e a risolvere i problemi velocemente, Questo perché la pubblicità è una macchina infernale, ci sono molti più soldi e di conseguenza un sacco di pressione, il cliente, l’agenzia e tremila cose di cui tenere conto. E’ come fare ogni giorno un piccolo film hollywoodiano. Inoltre mi ha fatto capire che tutti gli orpelli tecnici, i virtuosismi e le attrezzature contano poco se non hai una buona storia da raccontare, per cui aggiungerei che paradossalmente la pubblicità mi ha aiutato a liberarmi della pubblicità, e cioè di quel modo manierista di girare e di fare le cose. Negli anni sono diventato consapevole che questa modo di lavorare non mi piaceva più e che a contare erano i personaggi, la storia e gli attori, dunque, mi sono concentrato su questi aspetti, come si vede in “Spaghetti Story” e in “Acqua di marzo” che sono volutamente girati in maniera semplice per lasciare spazio ai personaggi e alla loro vicende.
“Acqua di Marzo” mi sembra che sia una storia di varie crisi esistenziali in cui i sentimenti amorosi e affettivi dei personaggi innescano problemi più seri: mi riferisco alla precarietà lavorativa di Libero e della sua ragazza ma anche alle situazioni altrettanto difficili della sua famiglia e di quella di Neve, l’amica dei tempi della scuola alle prese con un matrimonio finito e una figlia di cui occuparsi. E’ così, era questa l’idea di partenza.
Si, era questa, e come ho detto ieri in conferenza stampa non mi piace trattare i temi in maniera spudorata, quasi pornografica: in “Acqua di Marzo” per esempio si sfiora il tema dell’eutanasia quando il prete, riferendosi alla nonna del protagonista prossima alla morte, dice ai famigliari di lasciarla andare e subito dopo si vede uno dei personaggi intento a chiudere la manopola dell’ossigeno che le permette di sopravvivere. Secondo me trattare un tema del genere in questo modo serve a renderlo meno astratto rispetto a come viene percepito nei giornali e nella tv dove, quando si parla di queste cose, lo si fa come se riguardassero qualcun altro. Così ho inserito eventi rilevanti in un quadro di normalità e all’interno di una vicenda dove ci sono vari temi che possono diventare macroscopici e che interessano e influiscono sulla nostra vita anche se non ce ne rendiamo immediatamente conto.
In questo senso trovo che la leggerezza con cui “Acqua di Marzo” riesce ad affrontare argomenti importanti e delicati sia molto simile a quello di certe commedie francesi contemporanee: penso a titoli come “Quasi amici” “La famiglia Bélier”. Second te è un paragone possibile
Si, mi ci ritrovo. L’altra sera vedevo per l’appunto “Il gusto degli altri” e anche lì, seppur in un clima da commedia, il film sollevava un sacco di questioni rilevanti. Nel caso di “Acqua di Marzo” ho voluto raccontare quello che mi accade attorno, cose che succedono sia a me che alle persone che conosco e d’un tratto mi sono reso conto che stavo delineando uno spaccato non dico dell’Italia ma di qualcosa che riguarda molto da vicino la mia generazione. L’intento è sempre stato quello di occuparmi di cose reali in maniera diretta, cruda, poi non so se ci sono riuscito.
Il tono del tuo film è quasi tragico se non ci fosse l’ingenuità e la purezza dei personaggi a stemperare la drammaticità di certe situazioni in cui Libero e gli altri si vengono a trovare. Questo modo di intendere la commedia, che ha fatto la differenza nell’ultimo film di Virzì e che è stato il tratto distintivo della grande commedia all’italiana è uno delle caratteristiche principali del tuo cinema.
Infatti credo che Virzì, in questo momento, sia l’unico erede della grande commedia italiana per la capacità che ha di combinare dramma e ironia e perché lo fa attraverso personaggi tipicamente italiani che, in quanto tali, sono portati naturalmente a comportarsi così. Solo da noi infatti può capitare che uno vada a Napoli e trovi persone che pur immerse nella tragedia riescono a farsi una risata e, ancor meglio, riescano a farla fare agli altri. Comunque mi fa piacere che tu abbia trovato nel mio film dei riferimenti alla commedia italiana perché è una tendenza che si sta perdendo: la maggior parte dei film sono per lo più commedie barzelletta oppure sopra le righe e comunque patinate, mentre la commedia all’italiana raccontava la realtà così com’è, servendosi di toni scherzosi e insieme tragici.
Continuando su questo discorso ho notato che nella seconda parte ci sono due, tre sequenze che raggiungono una drammaticità altissima senza che questo metta in discussione il fatto di stiamo comunque guardando una commedia.
Sarà che io di queste cose le ho vissute; vengo dal sud e lì sono stato abituato a ritrovarmi in situazioni in cui lacrime e sorrisi erano due facce della stessa medaglia quindi mi viene spontaneo riportare entrambi gli aspetti nei miei film perché per me non sono divisi. Poi succede che nella maggior parte delle produzioni italiane – non in tutte per carità – questa caratteristica lascia il posto a soluzioni più edulcorate, le quali puntando al livellamento del prodotto concorrono a trasformare il cinema in televisione. Al contrario per me la settima arte deve disturbare un po’ non solo nei contenuti ma anche nel linguaggio. A costo di fare una cosa brutta preferisco fare un film imperfetto e magari sbagliare piuttosto che limitarmi al solito compitino.
Hai scritto la sceneggiatura insieme a Rossella D’andrea che è anche una delle protagoniste della storia: in che modo avete lavorato per ottenere questo equilibrio tra i diversi toni del film.
La commistione tra momenti di leggerezza e altri decisamente più seri è il frutto del mio apporto alla sceneggiatura, nel senso che la presenza di Rossella in fase di scrittura risponde alla necessità di avvalermi di uno sguardo femminile in grado di aiutarmi a creare figure di donne che non siano stereotipate come quelle che spesso mi capita di vedere sullo schermo.
Le sequenze iniziali pur riferendosi a momenti diversi dal punto di vista spazio temporale sembrano progredire senza soluzione di continuità nel senso che pur raccontando situazioni in cui Libero si trova una volta con la sua fidanzata e successivamente con la sua amica è comunque difficile riconoscere chi sia l’una e chi sia l’altra. E’ giusto dire che volevi togliere certezze allo spettatore.
L’intento era proprio questo anche perché se ti ricordi dopo le prime due sequenze ce n’è una terza dove Libero e la ragazza decidono di andare al ristorante cinese mentre nella successiva il protagonista sta si mangiando, ma di fronte a lui c’è un’altra ragazza.
Non a caso inizialmente le donne sono riprese nude e di spalle, in maniera che non sia facile distinguerle con certezza.
In generale l’idea era quella di creare confusione che è poi lo stato d’animo del protagonista, il quale si ritrova diviso tra due luoghi fisici, tra due donne, e tra passato e futuro e inizia a confondere le cose, a mischiarle in un modo che ho voluto rappresentare attraverso la visione di due mondi che perdono i contorni e finiscono per essere intercambiabili.
Il montaggio frammentato e sconnesso a cui abbiamo appena accennato era anche un modo per corrispondere al disagio esistenziale dei personaggi.
L’idea era che questo tipo di montaggio dovesse rappresentare l’ansia e il nervosismo dei protagonisti. In più mi dava la possibilità di girare con meno vincoli, di piazzare la macchina da presa sul set e di osservare ciò che accadeva, lasciando liberi gli attori di far vivere i loro personaggi indipendentemente da ciò che prevedeva la sceneggiatura. In questa maniera mi sono ritrovato un sacco di girato di cui poi – come accade nel documentario – ho tenuto le parti che mi servivano per rendere il tutto più realistico e per dare alla narrazione quel ritmo frenetico che segnala il disagio dei personaggi.
A proposito di attori, la tua regia lavora molto sulla qualità della recitazione e il risultato si vede perché l’umanità dei tuoi personaggi è tale che li si ama a prescindere da ciò che fanno. Come fai a ottenere questo effetto.
Intanto scegliendo dei bravi attori e poi fornendogli del buon materiale Si parte dunque dalla scrittura e dalla costruzione dei personaggi, i quali, buoni o cattivi che siano, per essere amati dal pubblico devono essere rispettati innanzitutto da chi li crea. Successivamente bisogna lavorare insieme all’attore per farlo entrare nella parte. Più che provare le battute a me piace parlare molto dei personaggi: agli attori chiedo di imparare il copione e poi di dimenticarsene, spronandoli a interpretare i personaggi non come li ho immaginati io ma secondo le loro inclinazioni. In questo modo dopo due, tre ciak diventano padroni della parte, calandosi naturalmente nella varie situazioni senza che io debba dirgli più niente; a quel punto cerco di disturbarli il meno possibile con tutte quelle cose tecniche che andrebbero a discapito della naturalezza, della spontaneità e della verità. Se succede un imprevisto com’è accaduto a Roberto Caccioppoli (Libero) che durante una scena ha fatto cadere involontariamente un bicchiere io la tengo comunque perché questo contribuisce alla naturalezza e alla verità del risultato. Inoltre cerco di fare meno prove possibile perché la spontaneità che hanno gli attori quando ancora devono entrare bene nella parte me la voglio conservare per quando si inizia a girare.
Mi pare di capire che fai pochi ciak
Dipende, certo, essendo un film low budget non è che ne posso farne tantissimi, comunque non ho una regola, cerco di ottimizzare a secondo del tempo che mi danno.
Nel tuo film parte del coinvolgimento arriva dal fatto che fino all’ultimo lo spettatore non capisce mai le reali intenzione dei personaggi. Nella seconda parte ci sono due scene che potrebbero essere il preludio di un doppio tradimento di cui però non fornisci alcuna prova. In questo modo lo spettatore rimane attaccato alla vicenda come se si trattasse di un thriller esistenziale in cui c’è da scoprire chi sia il colpevole.
Non è un caso, anche in “Spaghetti Story” c’erano persone che parlavano e rimanevano fuori campo e cosi accade in “Acqua di Marzo” dove ci sono fatti che avvengono e non si vedono ed oggetti di cui si sta parlando che non mi andava di inquadrare o di cui non volevo fare il dettaglio. Sono un bastian contrario e mi piace andare contro il prototipo di cinema televisione che fa di tutto per tranquillizzare lo spettatore, spiegandogli ogni cosa.
“Acqua di Marzo” si apre con due piani sequenza a camera fissa con i personaggi che parlano dando le spalle allo spettatore. L’assenza di movimento all’interno del quadro è acuita dal senso di stasi derivante dal fatto che fuori piove e che i protagonisti sono all’interno di una camera da letto poco dopo aver fatto l’amore. Mi sembra un’inizio coraggioso per una commedia italiana contemporanea e al tempo il manifesto di un’autorialità precisa e dichiarata.
Non so se è un manifesto ma è il tipo di cinema che piace a me. Negli anni ottanta i registi rincorrevano la moda del video clip, oggi si fa lo stesso con le web series senza considerare che il cinema è un’altra cosa. Utilizzare un certo tipo di linguaggio, un certo tipo di montaggio, un certo tipo di crudezza nella recitazione oppure dare la sensazione di staticità attraverso l’inquadratura senza fare troppi campo e controcampo è per me il modo di affermare la peculiarità del cinema rispetto ad altre forme d’espressione. Dopodiché, quando giro penso che sia più efficace raccontare certe storie immaginando di essere una persona che sta seduta a un tavolino di un bar e guarda due fidanzati che litigano: volendo simulare questo tipo di sguardo non potrei mai ottenere l’effetto voluto attraverso l’espediente del campo e controcampo; molto meglio è la ricostruzione di un osservazione che deriva dal ricordo dei pezzetti più significativi, selezionati e messi uno dietro l’altro senza altri artifici. Direi che questo è il cinema che mi piace, più semplice, più crudo e, senza essere presuntuoso, più cinematografico.
Quanto ha inciso il budget sull’assenza di panoramiche e di movimenti di macchina più complessi.
Sicuramente ho fatto di necessità virtù però anche con tanti soldi avrei girato sempre così; magari ci sarebbe stato più tempo per lavorare con gli attori e avrei avuto più opportunità per girare qualche scena, scegliere qualche location migliore però il linguaggio sarebbe rimasto lo stesso. In generale non mi andava di dedicare inquadrature diverse da quelle che ho fatto perché mi sembrava di raccontare qualcosa che in quel momento non era importante: la città comunque c’è e la si percepita attraverso i rumori di fondo, o, di riflesso, nel parlottio dei vicini di casa e non mediante la sua topografia.
Parte della troupe è la stessa di “Spaghetti Story”. Attori, sceneggiatori, montatore. A cambiare è il direttore della fotografia che rispetto alle peculiarità visive del primo film è artefice di un’immagine più classica, formalmente più pulita e composta. Pensiamo per esempio alla scena iniziale dove il nudo di Rossella D’andrea distesa sul letto la fa assomigliare a una scultura del Canova.
Per “Acqua di Marzo” volevo una fotografia diversa da quella di “Acqua di Marzo” per cui, insieme a Davide Manca che nel frattempo era già impegnato su un altro set abbiamo cercato un nuovo direttore della fotografia ed è stato lui a suggerirmi Simone Zampagni. Con lui ho parlato molto prima di girare ed è stato molto bravo ad adattarsi al mio modo di girare. Tieni conto che per avere leggerezza e libertà di movimento sono costretto a girare in maniera molto semplice, utilizzando una Canon che è poco più grande di una macchina fotografica. Nonostante questo Simone è riuscito a darmi ciò che volevo, realizzando una fotografia più classica e più pittorica rispetto a quella del primo film.
La produzione di “Spaghetti Story” è passata alla storia per il modo con cui sei riuscito a supplire alla mancanza di soldi. “Acqua di Marzo” è stato altrettanto avventuroso.
Avventuroso sempre. “Spaghetti Story” è stato un film incosciente, folle. Poi io ne ho fatto solo due per cui non so se sono tutti avventurosi. I miei lo sono stai. “Acqua di Marzo” è stato girato in tre settimane con un budget molto basso ma pur sempre superiore a quello del primo film che un budget (5 mila euro) non lo aveva proprio. Considerato che quest’ultimo era più complesso da realizzare diciamo che alla fine le difficoltà si sono equivalse.
Tra i molti meriti di “Spaghetti Story” c’è quella di aver inaugurato la moda della distribuzione itinerante e a macchia di leopardo, dimostrando che in qualche modo è possibile arrivare nelle sale.
Ne sono consapevole anche perchè sono stati gli stessi distributori e persino alcuni registi a dirmi che è stato “Spaghetti Story” ad aprirli verso possibilità distributive che adesso, almeno per i film a basso budget, sono diventate la normalità.
Mi piacerebbe sapere qual’è il cinema a cui ti ispiri e tra i film più recenti il nome di qualche titolo che ti ha particolarmente colpito.
E’ sempre difficile rispondere a una domanda del genere: posso dire che amo la nouvelle vague, come pure il cinema di Cassavetes; considero Spielberg e Kubrick dei maestri al punto che ogni volta che devo fare un’inquadratura penso a come l’avrebbero fatta loro e finisco sempre per stupirmi quando mi accorgo che riescono a fare scene molto complesse con una sola inquadratura. Mi piace il cinema americano, Tarantino e tra gli europei Lars Von Triers ma è la nouvelle vague che mi ha influenzato di più. Ultimamente ho apprezzato “Vi presento Toni Erdmann” e “The Comedy” (2012) di Rick Alverson che è il manifesto di un certo cinema americano. Tra i film italiani dico l’ultimo lungometraggio di Fabio Mollo, “Lo chiamavano Jeeg Robot”; poi aspetto con ansia il film di Matteo Botugno e Daniele Coluccini (autori di “Et in Terra Pax”) che stanno girando un lungometraggio tratto da “Il Contagio” di Walter Siti; credo che Virzì sia un regista da cui ho da imparare molto, mi piace Lucchetti, Garrone e Sorrentino. Devo dire che per il realismo, la crudezza e la verità che ogni volta ricerca nei suoi film Garrone è tra tutti il più vicino alla mia idea di cinema.
Stai già pensando a un prossimo progetto.
Si ho un’idea. Sto iniziando a scrivere ma procedo lentamente perché non mi piace fare il compitino. Devo trovare la verità anche in quello che scrivo e questo presuppone un processo molto lento, però, si, ho un’idea, con due personaggi ben chiari in testa e mi ci vorrà qualche mese per mettere giù la prima versione.
Carlo Cerofolini