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Survival of the dead (Fantafestival 2010)

«Le ‘teste morte’ hanno vinto. Il verdetto, spietato e lapidario, sta nella morale di “Survival of the Dead”, ultima fatica di George A. Romero. A tre anni dall’outbreak rappresentato da “Diary of the Dead” (2007), il ‘papà degli zombi’ torna a rivitalizzare l’epopea germogliata nel 1968 con la sesta pellicola dedicata all’apocalisse dei non morti».

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Le ‘teste morte’ hanno vinto. Il verdetto, spietato e lapidario, sta nella morale di Survival of the Dead, ultima fatica di George A. Romero. A tre anni dall’outbreak rappresentato da Diary of the Dead (2007), il ‘papà degli zombi’ torna a rivitalizzare l’epopea germogliata nel 1968 con la sesta pellicola dedicata all’apocalisse dei non morti.

Cinismo, politica, sociologia e anarchica utopia infranta si incontrano in un prodotto che, all’omaggio cinefilo nei confronti de Il Grande Paese (1958) di William Wyler, addiziona la latente ispirazione letteraria riconducibile a “Parto in casa”: racconto dell’amico Stephen King contenuto nella raccolta “Incubi e Deliri”; dal quale estrapola l’ambientazione isolana. Il film muove i primi passi da una frammento di Diary of the Dead e mette sotto la lente d’ingrandimento la fuga verso un posto migliore da parte del militare Alan Van Sprang (il Brubaker di La Terra dei Morti Viventi, 2005, per intenderci) e i suoi sfiduciati fedelissimi. La meta è un pezzo di terra in mezzo al mare, da generazioni teatro delle faide familiari tra O’Flynn e Muldoon. Il set ideale per esaltare l’arguzia critica di Romero, che coglie l’occasione per sfogare tutta la sua rabbia nei confronti della disumanità umana. O’Flynn è un Caronte mitomane che, esiliato, utilizza la sua casa natale come fittizia terra promessa da pagare a peso d’oro, Muldoon il suo perfetto contraltare: finto buonista contrario al fatidico colpo in testa, ma in realtà convinto di un’utilità da parte dei morti viventi similare allo sfruttamento, qui simbolico, già suggerito dal classico White Zombi (1932) (il postino incatenato alla buca delle lettere, la moglie ingabbiata in cucina).

Ovunque aleggia un’aria mefitica e malsana, resa insopportabile dalla stolta e avida deficienza di chi vivo lo è ancora, e come tale continua, imperterrito, a commettere identici e secolari errori. Incostante nel ritmo, palesemente povero nei mezzi digitalizzati, incapace di far ridere anche quando si sforza, a torto, di farlo: Survival of the Dead è comunque un’opera per certi versi definitiva, in grado di riassumere e riproporre, sotto nuova luce, tematiche illustrate nell’86 con Il Giorno degli Zombi (la rieducazione, questa volta alimentare, dei resuscitati). Loro, ‘i non morti’, si evolvono. Noi, i ‘vivi’ o presunti tali, no (si dedichi, a tal proposito, massima attenzione alla meravigliosa ‘ultima pallottola’ tra O’Flynn e Muldoon).  All’orizzonte c’è ancora un’illusoria speranza, da inseguire senza elicottero o Dead Reckoning, bensì in barca; con in cassaforte un frusciante quanto inutile milione di dollari. Teniamocelo stretto George A. Romero perché, nonostante la qualità a volte ne risenta, resta uno dei pochi registi ad avere ancora qualcosa da raccontare.

Luca Lombardini

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