Arte del trapezio e della fune, dell’acrobata e del funambolo
Escono per RIPLEY’S HOME VIDEO Una vampata d’amore (1953) di Ingmar Bergman e Parade (1974) di Jacques Tati. Due film sul/nel circo, tutti e due girati a Stoccolma: Parade fu prodotto dalla televisione svedese. Per entrambe le opere il circo, con desinenze differenti, è luogo dell’anima, immagine del mondo, metafora dell’umanità. Ma se in Bergman il circo è un’opera al nero, un dramma esistenziale, un “à bout de souffle”, in Tati è lo svelamento dell’arte circense, il mostrare a noi spettatori il davanti e il dietro del palcoscenico, il ritorno alle sue origine artistiche, il luogo dove tutto ha inizio. In Bergman, diversamente, tragicamente, il circo è il luogo dove tutto ha fine e nulla può avere un inizio. Il circo di Tati è estroverso quello di Bergman introverso. Da Chaplin a Fellini, passando per tanti altri registi, il circo, da sempre, è il luogo dell’immaginazione e della finzione cinematografica, dunque del doppio, che, attraverso la figura del cerchio (circo dal latino circus, cerchio), annoda i fili, ora tragici ora farseschi, delle nostre vite.
Una vampata d’amore (Gycklarnas afton, Svezia 1953) di Ingmar Bergman è il ritratto di un’umanità sofferente, disincantata e offesa metaforizzata dall’itinerante piccolo circo. Alberto (direttore del circo), Anne (amante di Alberto), Agda (moglie di Alberto), Frans (attore teatrale e occasionale amante di Agda) sono i protagonisti di questo dramma – per la critica francese una delle sue opere “nere” meglio riuscite – che porta sul grande schermo i primi approcci di quella introspezione psichica inalienabile nelle opere successive. Scritto e diretto da Bergman, Una Vampata d’amore si discosta nettamente dai precedenti film superandoli per una «…forma di aggressività estetica che si esprime attraverso l’espressionismo delle immagini, la virulenza della recitazione e quella specie di sadismo con il quale vengono scarnificati, umiliati, annientati il personaggio e l’umanità che esso rappresenta» (Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, Roma, 1981). Lo scrittore statunitense James Arthur Baldwin lo definì «una delle pellicole più brutali nell’approccio alla sessualità che siano mai state girate».
Parade (Parade, Francia-Svezia, 1974) di Jacques Tati. Ai numeri classici del circo e alle più famose gag che Tati fa riaffiorare dal suo storico repertorio dientertainer si alternano le riprese “dietro le quinte”. Ma Parade è anche, se non soprattutto, la testimonianza di uno spirito libero e anticonformista, un manifesto di fede inesauribile nelle potenzialità di ogni persona, a cominciare dai ragazzi, uno spettacolo magistralmente concepito, pur nelle ristrettezza del budget e dei giorni di ripresa. Superando ogni distinzione tra artisti e pubblico Parade diventa il palcoscenico ideale per il genio comico di Tati lasciandoci in eredità (è il suo ultimo film) “un music-hall fuori controllo” come lui stesso lo definiva. Con Parade si chiude il cerchio (ritorna il cerchio dal latino circus a significare il circo) aperto con Giorni di festa, un cerchio segnato da una comicità fortemente visiva, eredità del circo, dell’arte del mimo e della slapstick comedy. Il suo cinema ha capovolto il mondo per rimetterlo in piedi e lui è stato un artista che ha fatto della comicità la più arguta forma di ottimismo. Il critico francese Serge Daney diceva che ogni film di Tati è nello stesso tempo un momento nell’opera di Tati, un momento della storia del cinema francese, un momento della storia del Cinema.